Intervista. Il giurista Flick: «Eutanasia, si rischia la deriva»
Giovanni Maria Flick in una foto d'archivio
«Con il referendum a favore dell’eutanasia si rischia una china il cui esito non è prevedibile». Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta, è preoccupato dall’iniziativa referendaria radicale: «Si dice di voler venire incontro alla sofferenza, ma di fatto si vuole prescindere da ogni paletto che era stati posto dalla legge del 2017 e dalla Corte Costituzionale». Spera che sia il Parlamento a intervenire, applicando correttamente quanto deciso dalla Consulta. E ricorda: «Non conta il numero delle firme. Non sarà questo a condizionare la decisione della Corte».
La richiesta è di abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale, relativo all’omicidio del consenziente.
Il problema nasce da una lunga inerzia da parte del legislatore, protrattasi nonostante le ripetute sollecitazioni per regolamentare questa delicata materia e la diffusa consapevolezza che occorre una norma per regolare il fine vita e per assicurare la possibilità di morire con dignità.
E ora come si potrà procedere?
La strada è in salita, perché si tratta di conciliare da un lato il valore della vita, come fondamento di tutti gli altri diritti, e dall’altro il principio di autodeterminazione. Tenendo conto del fatto che la medicina ha fatto dei passi da gigante, consentendo di tenere in vita una persona anche in condizioni che possono essere estremamente difficili e penose. La scansione della disciplina giuridica nel frattempo è rimasta ferma alla previsione di tre reati: l’omicidio (il più grave); l’omicidio del consenziente, ossia l’uccisione della persona che lo chiede per sé; e l’aiuto al suicidio.
Poi è venuta la legge 219 del 2017 sul fine vita che oltre alle Dat introduceva le cure palliative e la sedazione profonda.
Con questa norma, adottata sull’eco dei casi Englaro e Welby, si è consolidata l’introduzione delle misure palliative, che consentono una morte senza soffrire. Ma i requisiti sono il valido consenso del paziente, una sofferenza intollerabile, e una infermità irreversibile nonché la dipendenza da interventi medico sanitari necessari alla sopravvivenza. Questa norma mira a evitare l’accanimento terapeutico e a consentire nei limiti del possibile una morte senza sofferenza. Non è eutanasia, ma l’accettazione senza contrastarla, in qualche modo, che la natura faccia il suo corso.
Ma questa legge ha finito per fare da apripista, ben oltre l’accanimento terapeutico. Ed è venuto il caso di Dj Fabo, aiutato a morire in Svizzera da Marco Cappato.
In questo caso, Dj Fabo, impossibilitato a togliersi la vita autonomamente, ha chiesto aiuto a morire attraverso la somministrazione di un "farmaco" letale. Una volta contestato il reato di aiuto al suicidio (articolo 580 del Codice penale) il caso è stato portato davanti alla Corte Costituzionale che con una procedura innovativa ha prima emanato un’ordinanza e differito la sua decisione a un anno di distanza per consentire nel frattempo al Parlamento di intervenire a disciplinare la materia. Scaduto quel termine, è giunta la sentenza.
Che cosa ha sancito questo pronunciamento della Consulta?
Ha affermato che la punizione dell’aiuto al sucidio resta costituzionalmente legittima, tranne il caso in cui la persona che chiede l’aiuto si trovi nelle condizioni previste, sostanzialmente, dalla legge del 2017 per chiedere la sedazione profonda. Mentre con la legge si stabilivano le condizioni per eliminare la sofferenza senza accelerare la morte, nel caso del Dj Fabo la Corte ha stabilito, dal momento che il Parlamento non è intervenuto, che l’aiuto al suicidio non è punibile quando ricorrano quelle condizioni. E questa decisione la lasciato la bocca amara sia a chi crede nella sacralità della vita, sia a chi chiede la piena autodeterminazione, che nel frattempo è stata invece riconosciuta dalla Corte costituzionale tedesca.
Così con il referendum ci si vuol prendere la rivincita.
È fondamentale che intervenga una legge, aveva sancito la Consulta. Il referendum si inserisce in questa inerzia, beneficiando fra l’altro di una "leggina" che coglie l’occasione, in modo non eclatante, per fare in modo che non sia più necessario andare ai gazebo per raccogliere le firme, ma le si possa raccogliere anche online.
Ma il numero delle firme non può diventare ora una forma di pressione, come fosse un plebiscito.
Naturalmente non intendo fare alcuna previsione sul pronunciamento della Consulta (di cui ho fatto parte per 9 anni) circa l’ammissibilità del quesito, ma sono sicuro che deciderà indipendentemente dal numero delle firme.
Che problemi vede, nel quesito?
Vedo una certa ambiguità nel voler decidere con un "sì" o con un "no" una questione molto più complessa. Ma soprattutto, il mio timore è che se il quesito dovesse passare eliminerebbe ogni punibilità dell’omicidio del consenziente, in tutti i casi, tranne quando sia viziata la sua volontà. I paletti posti dalla legge del 2017 e ribaditi dalla decisione della Consulta (sulla quale ho tuttora qualche perplessità) salterebbero tutti.
Perplessità di che tipo?
Circa il fatto che tale decisione sia stata presa dalla Corte, perché queste a mio avviso sono scelte che competono al legislatore. Ma stante l’inerzia del Parlamento mi rendo conto che un pronunciamento del genere forse era inevitabile.
Però sembra non bastare più.
Ora si chiede che chi non ha il coraggio di togliersi la vita, venga ucciso da un’altra persona. Chi non se la sente di premere il grilletto, poniamo per una delusione amorosa, potrà chiedere a un amico di farlo lui. Il referendum abrogativo non consente di porre paletti, o limiti, è questo è il punto.
Obiettano che tutti questi paletti vengono assorbiti dal consenso.
Non è così. Il consenso distingue solo l’omicidio del consenziente dall’omicidio in senso stretto. Ma un referendum può affidarsi a una legge successiva che rimetta i paletti, oppure a una interpretazione del giudice.
Con che conseguenze?
Si apre la via alla sola autodeterminazione della persona, mentre la Corte costituzionale ha espresso una posizione molto diversa, ribadendo oltre al consenso gli altri tre paletti. Viene cancellato un pezzo di legge e la si trasforma da semaforo giallo a semaforo verde. Non mi pare che basti affidarsi ai giudici o a una nuova legge, come dicono i referendari. Non ci sarebbero più limiti. Mi pare che, passo passo, si rischi di prendere una china pericolosa.
Che rischia di portare dove?
Nella totale liberalizzazione dell’autodeterminazione, a prescindere da una condizione di reale sofferenza, può passare di tutto. Persino un discorso di selezione per età, come qualcuno ha ipotizzato nel pieno della pandemia per i reparti di terapia intensiva che erano ormai pieni.
E il Parlamento che cosa dovrebbe fare?
A mio avviso dovrebbe mettere da parte i contrasti politici, e trovare un punto di ragionevole equilibrio, attenendosi il più possibile alla decisione della Consulta, regolamentando le difficoltà burocratiche che ci sono. Ad esempio creando un Comitato ad hoc, senza lasciare la responsabilità al Comitato di bioetica. Non decidere sarebbe un’occasione sprecata, specie in un momento come questo, anche per la fiducia che si deve avere nel Parlamento, il quale deve dimostrare ai cittadini di meritarsela.