Castagnetti. «Gerardo Bianco, europeista e meridionalista. Parlamento sempre al centro»
Pierluigi Castagnetti
«Gerardo Bianco è stato un grande europeista, meridionalista e parlamentarista». Pierluigi Castagnetti ricorda il predecessore alla guida dei Popolari, ma soprattutto l’amico, al quale era legato da profonda stima. «Ultimamente sentiva come urgente il rilancio del ruolo dei cattolici democratici. Pensava che lo si potesse fare dentro il Pd, ma con una capacità propositiva nuova». Il convegno di cui proprio Castagnetti è promotore, con l’associazione de I Popolari, e che si terrà all’istituto Sturzo il giorno 19, va in quella direzione: «Gliene avevo parlato due mesi fa, e mi aveva dato importanti suggerimenti. Certo, è la cultura che esprime l’attuale Capo dello Stato, ma questo non può bastare, dicemmo».
Come possiamo ricordarlo?
Era l’uomo più amato nel mondo della politica, da amici e avversari. Per la sua intelligenza, il suo tratto, la sua capacità di relazione. Non sopportava la superficialità e la cialtroneria, per il resto amava le novità e ci si rapportava senza pregiudizi, è difficile trovare oggi qualcuno che possa dire male di lui.
A Strasburgo siete stati insieme, dal 1994 al 1999...
Sono stati 5 anni intensi, che hanno cementato la nostra amicizia. Condividevamo quasi tutto, incontri, iniziative, ragionamenti. Non era stimato solo in Italia. Aveva un rapporto molto forte, ad esempio, con Helmut Kohl, e con il presidente spagnolo del Parlamento euroepeo José Maria Gil-Robles.
Era stimato, nella Dc, da Forlani e Andreotti, punti di riferimento dell’area più moderata. Poi però, finita la Dc, ha scelto l’alleanza con la sinistra.
In realtà lui è stato, con De Mita e Misasi, suoi colleghi alla “Cattolica”, uno dei tre leader della sinistra di Base al Sud e con loro ebbe un legame profondo. La rottura avvenne nel 1979 quando, proprio per la stima diffusa maturata presso i deputati, divenne il referente naturale della base del partito, con la “b” minuscola. Fu spinto da loro a ribellarsi alle indicazioni del partito, e dai vertici della Base, e divenne capogruppo eletto dai “peones”. La rottura con De Mita nacque così, ma non ebbe mai una corrente: entrava in Consiglio nazionale come “ospite” di Forze Nuove di Donat Cattin, non aveva pacchetti di tessere, pratica che detestava. E, infine, fu fra i promotori di un’iniziativa ardita come l’Ulivo, che aprì fino al Pds.
Era però diventato ministro dopo l’uscita dei ministri della sinistra Dc, fra cui Mattarella, in disaccordo per le reti concesse a Berlusconi. Ha raccontato che lo fece di malavoglia, perché Forlani implorò sua moglie...
Non era nella sua indole sostituire degli amici. Si oppose però poi convintamente al berlusconismo. Il suo faro è stata sempre la centralità del Parlamento, contro il leaderismo. Perciò ha denunciato anche di recente i rischi del progetto di riforma presidenziale. Diceva che non c’è democrazia senza una seria rappresentanza del popolo in Parlamento.
Non amava quindi questa legge elettorale.
Per niente. Era un convinto sostenitore del ritorno al proporzionale e alle preferenze.
Guardò con un certo interesse a Conte.
Disse che andava tenuto d’occhio, e aperto un dialogo con il M5s, come fece De Gasperi con l’Uomo Qualunque, per incanalare la protesta nelle istituzioni.
Europeista convinto.
Prodi e Ciampi convinsero un’area politica, ma lui fu decisivo a portare i moderati, col Ppi, nel progetto della moneta unica, superando tante resistenze.
E anche meridionalista, diceva...
Meridionalista come Sturzo. Vedeva l’Italia come Sud Europa, avamposto di pace nel Mediterraneo, nel solco di tre grandi ministri degli Esteri come Moro, Fanfani e Andreotti. Era orgoglioso di aver portato, come popolari, la cultura di governo nella sinistra italiana.