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Lo scenario. Si avvicinano le «europee», ma a prevalere è la paura che frena il futuro

Andrea Lavazza sabato 6 aprile 2024

Due mesi esatti dall’apertura delle urne europee: il 6 giugno si comincerà a votare in Olanda, il giorno dopo in Irlanda e Repubblica Ceca. In Italia, seggi aperti sabato e domenica, 8 e 9 giugno. Il rinnovo del Parlamento e, a seguire, della Commissione, l’organo “esecutivo” dell’Unione. Un appuntamento che molti etichettano come il più importante da molti anni a questa parte.

Difficile, come sempre, fare previsioni. La legislatura 2019-2024 non si annunciava certo epocale, poi sono venuti la pandemia di Covid-19 e l’invasione russa dell’Ucraina, con le connesse crisi sanitaria, economica, umanitaria ed energetica. La risposta dell’Unione è stata efficace secondo molti osservatori, seppure non perfetta, e certamente migliorabile. Il Next Generation UE, piano di investimenti per la prima volta finanziato con un debito condiviso, è stata la decisione più rilevante, che potrebbe aprire una nuova era.

Ma all’avvicinarsi delle elezioni molte sono le incognite, prevalgono i timori e le cautele, che hanno portato ad “annacquare” alcuni piani ambiziosi, e anche contestati (a partire dal Green Deal, vera bestia nera di tanti, per le limitazioni alle auto con motore a scoppio e le misure di adeguamento ambientale delle case). Le marce indietro si sono registrate all’interno della stessa maggioranza che ha guidato l’Assemblea di Strasburgo, ovvero la coalizione tra popolari, socialisti e liberali. Non è un mistero: la dinamica che sta dominando questa campagna elettorale è quella della prevista avanzata delle forze populiste, sovraniste ed euroscettiche, con la conseguente mossa “moderata” del Ppe su alcuni temi chiave.

I sondaggi, per ora e per quel che valgono, prevedono che una riedizione dell’alleanza attuale sarà l’unica praticabile, senza grandi scossoni nei rapporti di forza tra i partner.

Ciò è dovuto alla sostanziale divisione delle diverse anime della destra su argomenti importanti come gli aiuti a Kiev e il futuro dell’Unione.

Figura chiave rimane Ursula von der Leyen, presidente uscente della Commissione e attivissima candidata ufficiale alla riconferma (nel 2019 non era Spitzenkandidat e venne proposta da Angela Merkel per rompere l’impasse tra i leader del Consiglio).

Von der Leyen (lambita dall’inchiesta sull’acquisto di vaccini Pfizer), pur restando ferma sul sostegno all’Ucraina, ha incarnato negli ultimi mesi un approccio più conservativo sul resto dell’agenda europea, alimentato probabilmente anche dalle proteste di piazza degli agricoltori, che hanno letteralmente “incendiato” Bruxelles per protestare contro le misure verdi che li penalizzavano. La Commissione ha fatto poi parziale retromarcia.

E molto meno aperturista è diventata sul tema dei migranti, forse il più caldo e divisivo in molti Paesi (sebbene non in tutti). Von der Leyen, insieme a Giorgia Meloni, ha stipulato accordi con Tunisia ed Egitto per limitare i flussi verso la riva nord del Mediterraneo, raccogliendo la censura del Parlamento e delle Ong. I popolari hanno intanto aperto alla dislocazione dei richiedenti asilo in Paesi terzi, come vuole fare l’Italia in Albania (e la Gran Bretagna in Ruanda).

Nel momento in cui molti spingono per avanzare coraggiosamente in direzione di una politica estera e di difesa comune, con una riforma dei Trattati che apra alle decisioni a maggioranza, le paure e i calcoli elettorali sembrano prevalere. Soprattutto perché gli “spin doctor” dei partiti consigliano di non basare la propria campagna elettorale sui risultati raggiunti dall’Unione nell’ultimo quinquennio, giudicati non sufficientemente attrattivi.

Ma in questo modo si rimane intrappolati nelle esitazioni e negli interessi di corto raggio che impediscono ai cittadini di appassionarsi al “cuore caldo” dell’Europa.