L'analisi. Europa in bilico tra rigore e sviluppo. Un patto ancora da scrivere
Il nuovo patto di stabilità sul quale si è arrivati all’accordo tra i ministri delle finanze europee è “intelligente” o “stupido”? Un buon patto di stabilità (che sostituisce il vecchio Fiscal Compact) dovrebbe avere quattro requisiti fondamentali.
Il primo è dare un segnale ai mercati che il debito è sostenibile definendo un obiettivo di rientro del rapporto deficit/Pil e debito/Pil.
Il secondo è che questo segnale non deve essere troppo forte da rendere la traiettoria insostenibile nella direzione opposta (eccesso di rigore, calo del Pil e, quindi, peggioramento del rapporto debito/Pil), ad esempio imponendo politiche di austerità durante periodi di recessione (il problema della correzione per il ciclo).
Terzo e quarto, è fondamentale non dimenticare la lezione della risposta europea nel periodo della pandemia. Ci deve essere spazio per politiche d’investimento nella transizione ecologica e digitale finanziate da emissioni europee, (investimenti che aumentano competitività e produttività dell’Ue e, dunque, hanno effetti anche sulla sostenibilità del debito) e la Bce deve far capire chiaramente ai mercati che è pronta a intervenire per allentare possibili tensioni acquistando titoli pubblici dei paesi membri.
Questo quarto elemento apparentemente non riguarda direttamente il patto ma è fondamentale. Una politica fiscale e una regola di patto di stabilità non possono essere valutate a prescindere, ma solo condizionatamente, dalla definizione della strategia della politica monetaria stabilita dalla Bce (non a caso il quantitative easing ha ridotto o eliminato tensioni sui mercati finanziari verso i Paesi ad alto debito in momenti difficili).
Quanto di questi quattro punti fondamentali troviamo nell’accordo all’Ecofin sul nuovo patto di stabilità e nel rapporto tra politica fiscale e politica monetaria prossimo venturo? Rispondere non è affatto facile, perché stiamo giudicando accordi verbali che porteranno a un documento finale che deve passare attraverso Parlamento e Commissione europea.
Quello che è certo è che il segnale di rientro (il primo punto) c’è ed è sottolineato forse anche in modo troppo marcato (riduzione annua del rapporto debito/Pil dell’1 percento per i Paesi sopra il 90% di quel rapporto e riduzione del rapporto deficit/Pil dello 0,5% all’anno se sopra il 3% fino all’obiettivo dell’1,5% invece che del 3%). Sui punti due e tre ci sono segnali vaghi, ma le regole non sono ancora chiare. La correzione del ciclo è sempre una questione difficile (lo era anche nel vecchio fiscal compact) perché non è banale definire analiticamente il ciclo economico stesso.
Anche sulle eccezioni per gli investimenti green e digitali ci sono menzioni, ma nessuna regola chiara. Spunta poi l’accordo per un periodo transitorio che rallenterebbe e ritarderebbe l’entrata in vigore del patto per tenere conto dei problemi di questi ultimi anni. Per definizione poi (come è stato anche con il fiscal compact) i percorsi di aggiustamento saranno negoziati con soluzioni su misura per i diversi Paesi, tenendo conto di varie circostanze. Al solito, dunque, la vaghezza delle regole lascia spazio a enormi margini di contrattazione e di manovra dove conteranno i rapporti di forza.
Significativa la (non) reazione dei mercati finanziari (Borse e spread) all’annuncio dell’accordo. Che suggerisce da una parte che non lo si ritiene particolarmente dannoso (non una notizia negativa), ma neanche un segnale capace di far fare un balzo in avanti alle economie dei Paesi membri e alla sostenibilità del loro debito. Dall’altra parte, indica che tutti gli elementi di vaghezza e incertezza di cui abbiamo parlato non consentono valutazioni troppo chiare sull’impatto della decisione.
Colpisce inoltre la posizione del governo italiano.
Che da una parte approva il nuovo patto, dall’altra decide di non voler ratificare il Mes, ovvero l’accordo che rafforzerebbe le risorse destinate ai salvataggi in caso di crisi di banche nei Paesi membri, temendo arbitrarietà nella condizionalità in caso di necessità di ricorso al Mes stesso da parte italiana. Da una parte, non si teme di approvare un patto dove regole forti e condizionalità da negoziare sono l’elemento essenziale; dall’altra, si ha paura di approvare il funzionamento di un Fondo che entra in campo solo in caso di richiesta esplicita da parte dello Stato in difficoltà.
Quello che è certo è che dobbiamo ricordare che l’Unione europea ha recuperato credito e consenso con il colpo di reni del Pnrr proprio in uno dei momenti economici più difficili della nostra storia del dopoguerra, partendo da una situazione di debolezza nella quale la spinta a uscire dalla moneta unica era molto forte. Sul nuovo patto ci giochiamo pertanto l’opportunità di non perdere il credito e i consensi acquisiti tornando a modelli del passato di cui abbiamo imparato a conoscere i limiti.