Schmidheiny rinviato a giudizio. Eternit, l'incubo infinito (e un odio senza senso)
Un gruppo di ex operai degli stabilimenti della Eternit in tribunale a Torino
È un incubo che sembra non finire mai. Una storia di morte, l’Eternit, ma anche di rabbia, paura e inspiegabile odio. E ieri si è consumato un altro capitolo: l’industriale svizzero Stephan Ernest Schmidheiny, ultimo “padrone” della multinazionale, deve rispondere di omicidio volontario per le vicende di 392 persone, tra lavoratori e residenti nell’Alessandrino, che si sono ammalate di cancro e poi sono decedute, secondo l’accusa, proprio per l’amianto lavorato nella filiale di Casale Monferrato. Il Gup di Vercelli ha deciso il rinvio a giudizio del titolare della ditta e fissato la prima udienza del processo in Corte d’Assise per il 27 novembre. Un atto inevitabile per trovare la verità.
Ciò che sconcerta, comunque, sono le dichiarazioni rilasciate dall’imprenditore in un’intervista al giornale elvetico “Nzz am Sonntag” proprio alla vigilia della decisione del giudice piemontese. Schmidheiny ha detto, infatti, «che si sente perseguitato dai magistrati di un Paese fallito» e «che prova odio per gli italiani». Il magnate di Balgach – si ricorderà – era stato condannato a 18 anni (ma il reato è estinto per prescrizione) perché ritenuto responsabile, dalla Corte d’Appello di Torino nel 2012, del disastro ambientale provocato dall’amianto trattato negli stabilimenti della sua azienda a Casale Monferrato, Rubiera (Reggio nell’Emilia) e Bagnoli (Napoli).
Colpevole o no, ci si aspettava almeno un briciolo di pietà da parte sua per quei morti e per i familiari che li piangono, se non un pentimento e il conseguente risarcimento delle bonifiche. Si sarà mai chiesto Schmidheiny, almeno in cuor suo, perché dagli anni ’50 ad oggi, 2.500 operai sono morti per mesotelioma pleurico intorno alle sue fabbriche? E a Casale e dintorni si continua a morire di Eternit: ogni 7 giorni c’è una diagnosi di questa inesorabile malattia. Molti sono malati terminali. Come i degenti dell’hospice Gelso di Alessandria, a 34 chilometri dalle presse dove si componevano gli ondulati in fibrocemento (fuorilegge dal 1992). Nella struttura sanitaria, ieri, un pensionato di 79 anni, in preda alla disperazione, ha sparato e ucciso la moglie 72enne malata di tumore. E poi ha rivolto l’arma contro se stesso, togliendosi la vita. Gli infermieri hanno trovato un biglietto vicino ai corpi, lo aveva scritto lui prima di compiere il tragico gesto: «Perdonatemi». Si sbaglia, anche in modo irreparabile. Ma si può chiedere scusa. Come ha fatto anche il consigliere comunale di Alessandria Carmine Passalacqua che, proprio sull’hospice Gelso, durante una riunione in Municipio ha pronunciato questa frase a dir poco sibillina: «Perché fare beneficenza dove si va a morire? Io non capisco tutte queste raccolte fondi per il Gelso, l’ultimo posto dove uno si augura di andare».