Se sei giovane, sei sveglio, hai studiato e vuoi farti valere nel tuo Paese e nel mondo nascere in Eritrea potrebbe precluderti, e di molto, qualsiasi sogno di gloria. Il tuo futuro, all’Asmara come a Teseney, a Keren come a Massaua, è nelle mani di qualcun altro. Appena maggiorenne sarai mandato a vivere con altri 400mila poveracci in tende soffocanti e senza luce, uomini e donne insieme nei campi al confine con l’Etiopia. Dieci, quindici, vent’anni, i migliori della tua vita a guardare il deserto. A difendere pietraie e sterpaglie in attesa di una guerra che forse nemmeno ritornerà. Ostaggio di un uomo, il presidente, che né tu né tuo padre avete mai votato ed eletto. Centri educativo-militari, li chiamano. Di fatto una deportazione di massa. Prigionieri in casa loro, gli eritrei. La carta d’identità non basta nemmeno per spostarsi all’interno del Paese. Ovunque serve un permesso di viaggio da mostrare ai posti di blocco: il governo vuole sapere dove ti trovi. Per andare all’estero bisogna avere almeno 50 anni (40 per le donne). I giovani tutti dentro, coscritti dal servizio civile o militare, sia mai riprendesse una scaramuccia con Addis Abeba. E l’idea del conflitto permanente giustifica anche il presidente Issaias Afeworki dalla mancata approvazione della Costituzione, pronta dal 1997 e mai promulgata. Il dissenso interno, manco a dirlo, non esiste. I media non pervenuti. La stampa privata è abolita dal 2001, restano gli agit prop di Stato: un quotidiano in tigrino, un settimanale in inglese, una stazione radio e due canali Tv. Trasmettono in lingue diverse, ma il contenuto è identico, partorito dall’Agenzia eritrea di notizie di proprietà del governo. Negozi, magazzini e botteghe sono spesso vuoti. Le forti limitazioni alla proprietà privata non hanno avuto esiti felici. In ogni caso, se vuoi aprir bottega, devi entrare nella Corporazione del Mar Rosso, la sezione economica del partito. L’unico che c’è, naturalmente. Fronte Popolare per la Democrazia e Giustizia. Ma democrazia, qui, non ce n’è. E la giustizia è fatta di torture e lavori forzati, di incarcera- zioni dettate da motivazioni politiche o religiose, di arresti che quasi masi sfociano in processo. Finiscono in carcere anche i genitori di quei figli che, per disperazione o pazzia, fuggono all’estero. Prima, però, c’è da pagare una multa di 2.500 dollari. Una fortuna. Lo stipendio medio, per chi si aggiudica un posto nell’intricata e asfissiante burocrazia di Stato, è di 30 dollari al mese. Agli altri spesso non resta altro che tentare di cavare qualcosa da terreni sempre più improduttivi. I più fortunati campano grazie alle rimesse dei parenti all’estero. Il più fortunato di tutti è lo Stato, che dalle tasse su quelle rimesse trae linfa vitale per i suoi investimenti in armi (oltre il 20% del Pil). Dal 2002 anche le religione è nel mirino del regime. Hanno diritto di esistere solo ortodossi, musulmani sunniti, cattolici e membri della chiesa evangelica di Eritrea. Da un paio d’anni, però, Ong occidentali e religiosi cristiani sono sempre meno benvenuti: una dozzina di suore e sacerdoti – metà dei quali italiani – è già stata espulsa dal Paese. Un tributo – sostengono gli oppositori – che il regime sta pagando per gli aiuti succhiati dagli Stati islamici del Golfo, Arabia Saudita in testa. Il tutto mentre è sempre più solido il legame del governo con la guerriglia fondamentalista somala. Anche a rischio della vita se sei giovane e vuoi respirare un po’ di libertà da questo Stato-prigione prima o poi cerchi di scappare. Dell’Europa, forse, hai sentito parlare a scuola. Dell’Italia, di un’Italia che non c’è più, dai racconti di tuo nonno. La fuga è il primo passo. Le guardie, le spie di regime, i trafficanti non ti fanno paura se la realtà quotidiana è un abisso senza fine.