Attualità

Agrigento. Minacce alla Coop intitolata a Livatino

Antonio Maria Mira lunedì 21 settembre 2015
​Tre intimidazioni in nove giorni. E, se non bastasse, la scoperta di ostacoli burocratici. È quanto sta accadendo in queste settimane alla cooperativa "Rosario Livatino" che gestisce e coltiva terreni confiscati alla mafia nell’agrigentino, su alcuni dei quali indagava il magistrato ucciso 25 anni fa. «Ma noi non ci arrendiamo – afferma il presidente della cooperativa Giovanni Lo Iacono – perché vogliamo agire necessariamente per la giustizia, a qualunque costo, anche per la grande responsabilità di portare il nome di Livatino, per noi è un onore». Una storia recente la loro, ma già piena di molti ostacoli. La cooperativa nasce nel giugno 2012 dalla collaborazione tra Diocesi di Agrigento e Libera, col contributo del Progetto Policoro della Cei e dell’Agesci, e il sostegno della prefettura. Attualmente gestisce circa 300 ettari coltivati a grano, legumi e vigneto nei comuni di Naro e Castel Termini, oltre all’attività di apicoltura con 250 arnie. Vi lavorano 4 soci e 6 operai stagionali. La sede si trova nel comune di Naro in un casale in contrada Robadao che ospita anche la base scout intitolata al giudice Antonino Saetta e al figlio Stefano, uccisi dalla mafia due anni prima di Livatino. Su queste attività si è scatenata la violenza criminale ma anche l’inefficienza amministrativa. Il 4 settembre in contrada Gibbesi sempre a Naro sono state rubate 28 arnie piene di miele e di api, con un danno immediato di 15mila euro oltre a quello per la successiva mancata produzione. Dopo appena 5 giorni, il 9 settembre nella sede di Naro vengono rubati un piccolo trattore, un furgone con gru, mille litri di gasolio, un atomizzatore e un tiller, tutte attrezzature nuove o acquistate da pochi anni. Il danno è di circa 30mila euro. Ma non basta. Passano solo 3 giorni e il 12 settembre ad Agrigento vengono incendiate 20 arnie che erano state installate in un terreno del demanio forestale per la fioritura degli eucalipti. Questa volta i danni ammontano a 6mila euro. In totale più di 50mila euro. Un vero disastro per la cooperativa. Inatteso. Ma il segnale è chiaro. «Per tre anni non era successo nulla – commenta Lo Iacono –, poi è accaduto tutto insieme senza alcun preavviso. Sicuramente siamo stati presi di mira». Ma, insiste, «malgrado il grave danno non arretriamo di un metro. Vogliamo difendere i dieci posti di lavoro creati in un territorio dove il lavoro è tanto difficile da trovare». Sarà dura, ma, ci tiene a sottolineare, «non siamo soli, lo Stato c’è e siamo incoraggiati ad andare avanti». Anche se non tutte le istituzioni collaborano, anzi c’è chi mette ostacoli. Lo hanno toccato con mano proprio recentemente col progetto per realizzare nel casale un laboratorio per la smielatura e il confezionamento dei barattoli. «Abbiamo già tutte le attrezzature, ma quando siamo andati a fare una visura catastale abbiamo scoperto che non risultava niente, il casale è un immobile fantasma». Incredibile perché è stato realizzato coi fondi del "Pon sicurezza" del ministero dell’Interno e assegnato al Consorzio dei comuni agrigentini per la gestione dei beni confiscati. Ma il comune di Naro non lo ha mai accatastato. «Ci hanno detto che non lo possono pagare e hanno chiesto a noi di farlo. Ci costerà 5mila euro. E altro tempo perso». Sicuramente qualcuno sarà molto contento.Rosario Livatino era nato a Canicattì il 3 ottobre 1952 da papà Vittorio e mamma Rosalia. Dal 1979 all’89 si occupa delle più delicate inchieste antimafia, prima anche della "tangentopoli siciliana". Come giudice è tra i primi a sequestrare i beni mafiosi. Il 21 settembre 1990 a bordo della sua auto come tutte le mattine stava raggiungendo da Canicattì il tribunale di Agrigento. Sul viadotto Gasena della statale 640 viene affiancato da una moto e una Fiat Punto che lo bloccano. Dopo i primi colpi tenta di fuggire nella scarpata, ma uno dei killer lo raggiunge e lo uccide con 7 colpi. Killer e mandanti, grazie alla coraggiosa testimonianza di Pietro Nava presente sulla statale, sono stati individuati e condannati. Giovanni Paolo II lo definì «martire della giustizia e, indirettamente, della fede». Era il 9 maggio 1993, giorno della famosa invettiva contro la mafia nella Valle dei Templi. Il 21 settembre 2011 nella sua parrocchia di Canicattì è stata aperta la causa di beatificazione e l’arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro lo ha definito «servo di Dio e operaio della giustizia».