La meritoria battaglia per la semplificazione dello Stato attraversa in queste settimane una fase cruciale. Il tempo passato tra l’attuazione della legge Delrio che ha ridisegnato l’assetto complessivo del governo del territorio, portando all’istituzione delle città metropolitane e al graduale superamento delle Province, e il decreto enti locali atteso questa settimana al Senato, ha permesso di evidenziare diversi ordini di criticità da affrontare con chiarezza a livello politico, amministrativo e sociale.Dal punto di vista della rappresentanza politica, i doverosi cambiamenti imposti dalle ultime riforme non hanno risolto il problema del "governo del territorio". Da una parte, come ha dimostrato la recente campagna elettorale per le Regionali, i governatori cercano di rispondere alle accuse di "neocentralismo" su base locale, frutto delle gestioni dell’ultimo ventennio, ricordando che la stagione delle risorse a pioggia è finita da tempo anche per loro e che l’ultima Legge di Stabilità ha penalizzato soprattutto i loro centri di spesa, con tagli per 3,9 miliardi. Dall’altra i Comuni, che come richiesto dall’ultima manovra dovranno risparmiare 1,2 miliardi, cercano di trovare un punto di equilibrio tra le minori risorse disponibili e i fondamentali servizi da erogare alla cittadinanza, dall’edilizia scolastica agli interventi contro il dissesto idrogeologico. In mezzo, ci sono Province e città metropolitane, "il già e non ancora" di questa fase storica. Non a torto, esse lamentano di essere diventate una sorta di agnello sacrificale della stagione di nuova austerity disposta dall’esecutivo, schiacciate dai due giganti della finanza locale e incapaci di decidere del proprio destino. In termini economici, è stato di circa 1 miliardo il contributo chiesto loro per partecipare alla
spending review di Palazzo Chigi. Quel che più colpisce però è che si tratta di soggetti pubblici lasciati nel limbo, quasi non ci fosse stata all’inizio l’intenzione di abolirli completamente (come chiedeva una parte dell’opinione pubblica) e quasi mancasse adesso un’idea su come gestire una fase transitoria che, vale la pena ricordarlo, è appena cominciata.
Eppure, una verifica sullo stato dell’arte della riforma è quanto mai necessaria, vista anche la
querelle apertasi pubblicamente in queste ore tra Regione Lombardia e città metropolitana di Milano: proprio domani si riunirà l’Osservatorio che ha il compito di monitorare la legge Delrio e sarà la prima volta da marzo. Quanto agli effetti pratici, la mobilitazione da parte dei sindacati per salvaguardare il futuro occupazionale di circa 20mila lavoratori interessati a processi di mobilità (più verso le Regioni che verso i Comuni, pare di capire) è solo uno degli aspetti più controversi della vicenda. Gli altri sono la sostenibilità, a brevissimo termine, dei bilanci delle amministrazioni provinciali, che rischiano in decine di casi il dissesto da qui a fine luglio, senza interventi da parte dello Stato centrale. A maggio la Corte dei Conti ha parlato di «diffuso deterioramento della finanza provinciale», evidenziando come l’attuazione del progetto di riordino delle competenze a livello locale stia incontrando ritardi. Lunedì, proprio davanti ai magistrati contabili, l’Unione delle province italiane ha sottolineato come a questo punto ci sia «un forte allarme sul mantenimento dei servizi essenziali ai cittadini». A rischio c’è innanzitutto la tenuta degli equilibri di bilancio dei cosiddetti "enti di area vasta", con «la quasi totalità delle Province non in grado di approvare un bilancio di previsione triennale».
Saltata, o quasi, la concertazione, non c’è neppure traccia di una
governance locale, di un dialogo tra i diversi enti, più attenti a rimarcare le proprie prerogative che a pensare a sviluppi futuri. Sono pochissime, ad esempio, le Regioni che hanno emanato una legge sul riordino delle funzioni provinciali, tanto che il ministero per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione non ha escluso di avocare a sé le decisioni finali, soprattutto per ciò che riguarda le modalità di spostamento del personale.
L'Anci, ad esempio, ha appena chiesto al governo di accelerare sulla destinazione ai municipi del personale appartenente ai corpi di polizia provinciale. Nel frattempo, se si registra "dal basso" cosa è cambiato, ci si sentirà rispondere che le prime razionalizzazioni in materia di spesa hanno interessato i trasporti pubblici e le politiche per l’ambiente, che la mancata manutenzione ha fatto chiudere nella penisola interi tratti stradali durante l’inverno onde evitare rischi per chi guida, che i servizi per l’impiego stanno diventando una chimera. Non solo: sta mutando radicalmente anche il profilo di molti sindaci di città di medie dimensioni, divenuti nel frattempo anche presidenti di provincia. Incarichi che si assommano, dunque, con inevitabili oneri per chi li assume, in termini di tempo e responsabilità. Il problema è che, ufficialmente, tutti sono concordi nel dare (e chiedere) massima collaborazione a tutti i livelli istituzionali. Nel concreto, invece, è in atto una battaglia senza quartiere per garantirsi risorse e fette di potere, senza che alcuna cabina di regia sul territorio sia ancora apparsa. Il fatto che la coperta delle risorse si sia fatta negli anni decisamente più corta ha soltanto fatto esplodere prima le contraddizioni, rilanciate prontamente dalle organizzazioni dei lavoratori, anch’esse non esenti peraltro da responsabilità sulla deriva della pubblica amministrazione di questi anni.
Ecco perché al piano politico non può non aggiungersi un’analisi sulle conseguenze che, dal punto di vista sociale, paesi e città dell’Italia profonda stanno vivendo. Quali sono oggi i bisogni irrinunciabili per una comunità? Di quali servizi lo Stato deve farsi carico e a cosa invece può rinunciare? Quale livello dell’amministrazione locale può essere meglio coinvolto per rispondere a queste nuove esigenze? Come riequilibrare l’imposizione fiscale, evitando lo scaricabarile tra centro e periferia?
Sono interrogativi cui, almeno in parte, dovrà dare risposta l’imminente decreto sugli enti locali, senza però trascurare la possibilità di immaginare, in futuro, un nuovo "patto" tra gli stessi e lo Stato: l’impasse attuale non può durare a lungo e soprattutto occorrerà attrezzarsi al meglio per comprendere e rispondere ai segnali in arrivo dal territorio.