A Finale Emilia, il capo dell’ufficio tecnico discute le pratiche di agibilità sotto un gazebo. Dentro, accalcati in un magazzino che dovrebbe essere il Municipio, i suoi colleghi smistano quelle dell’autonoma sistemazione. Più o meno la stessa scena si presenta a Mirandola, Cavezzo, San Felice sul Panaro... La gioiosa macchina da guerra dei servizi pubblici di questa regione rossa - ve lo ricordate il “modello emiliano” di Andrea Costa? - ha retto al sisma e lo stesso si può dire del suo storico alter ego, il mondo delle parrocchie: i grest si tengono regolarmente nei prati, davanti alle chiese lesionate e agli oratori inagibili, le Caritas sono al lavoro dalla mattina del 20 maggio e nelle sette diocesi colpite ci si prepara alla ripresa delle attività pastorali d’autunno. A guardarsi intorno, se non fosse per le fabbriche squarciate e le chiese crollate, non sembrerebbe una terra devastata dal terremoto. Il confronto con l’Aquila è nell’aria: pressoché identica la magnitudo, diversi gli effetti; non minori i danni ma infinitamente più debole la resa mediatica. Ancora oggi l’idea del “grande terremoto” resta legata alle immagini choc dei mezzi di soccorso incolonnati verso Onna, Paganica e Pettino, alle migliaia di volontari, un’intera nazione che accorreva al capezzale dell’Aquila ferita. Marco Iachetta, vicedelegato nazionale della Protezione civile per l’Anci, è un veterano delle emergenze: «Ogni terremoto è diverso – ci dice – e diversa è la percezione che se ne ha, con ovvie conseguenze su mobilitazione e donazioni. All’Aquila c’erano 70mila sfollati, qui 17mila. Là un capoluogo, qui piccoli comuni, anche se su un’area di un milione di persone. Là un’area poco industrializzata, qui un territorio che produce più dell’1% del Pil». Per dirla tutta, là le spese si rimborsavano a piè di lista, mentre qui - dopo la stretta del decreto 59 - ogni acquisto è sottoposto a minuziosi controlli.«Non siete e non sarete soli!», ha esclamato il Papa a Rovereto, esorcizzando il rischio che la reattività delle vittime ne giustifichi l’abbandono. La Protezione civile limita il numero delle tendopoli? Nei giardini delle case spuntano i “campeggi”. Lo stabilimento è inagibile? Si affitta quello del vicino e si ricomincia a lavorare... La nomea di persone solide, reattive e proattive comporta tuttavia un prezzo che gli emiliani rischiano di pagare con il diradarsi della solidarietà. Le donazioni arrivate sul conto della Protezione civile ammontano a 20 milioni di euro contro i 68 dell’Aquila. Non si ha notizia di grandi donatori internazionali: la “lista di nozze” di Berlusconi fu un flop ma dai Grandi arrivarono pur sempre 20 milioni di euro. La Caritas Italiana raccolse allora 35,1 milioni di euro; le offerte pervenute da circa la metà delle diocesi italiane si aggirano intorno ai 5 milioni (più tre donati dalla Cei). Mobilitazione controllata anche per i volontari incardinati nella Protezione civile: il picco massimo è stato di 2.600 unità, quando in Abruzzo le sole Misericordie ne schieravano 1.400. I vigili del fuoco e le forze dell’ordine, partiti con 3.500 uomini, sono stati ridotti (2.900) man mano che gli sfollati tornavano a casa. Il presidente dell’Emilia Romagna Vasco Errani, commissario alla ricostruzione, ha fissato la deadline: ridare un tetto a tutti entro l’autunno e «senza new town»; le verifiche di agibilità corrono: 56.800 controlli e 44.800 edifici già restituiti ai proprietari nella sola Emilia. Oggi, la popolazione assistita nelle tre regioni colpite (Emilia, Lombardia e Veneto) supera di poco le 8mila unità. Anche in Abruzzo è calata del 50%, ma in tre anni.In Emilia si sono incontrate necessità e virtù, la crisi e il carattere volitivo dei terremotati. Qualcosa di analogo è avvenuto nel 1997 con l’emergenza Marche-Umbria. «Anche allora – racconta Roberto Oreficini Rosi, dirigente della Protezione civile marchigiana – la risposta venne dalle popolazioni, con l’offerta di abitazioni sfitte agli sfollati. Ci furono gemellaggi tra i Comuni, che hanno creato legami tuttora attivi. Il caso emiliano e quello umbro-marchigiano mi paiono simili». Anche qui l’Anci ha varato i gemellaggi, con “Adotta un Comune”, e la Compagnia delle Opere fa lo stesso con “Imprese gemelle”. Il format vincente resta dunque quello lanciato più di trent’anni fa in Friuli dalla Caritas, che risponde all’esigenza di coordinare la solidarietà per evitare che le ondate di generosità si trasformino in tsunami organizzativi. «È per questo che si interviene con gradualità – spiega don Andrea La Regina, responsabile dell’ufficio macroprogetti di Caritas Italiana –. L’Emilia è un’area ben strutturata, non solo dal punto di vista economico, ma anche sul piano ecclesiale, quindi la risposta delle realtà locali alla prima fase di emergenza è stata pronta e sufficiente». In Friuli, le sole realtà cattoliche portarono più di 16mila volontari. All’Aquila i volontari coordinati dalla Caritas erano 7mila. In questi due mesi non sono mancati i gruppi di volontari accorsi a dare una mano alle 185 parrocchie terremotate ma la vera mobilitazione scatterà solo coi gemellaggi Caritas, in autunno. Saranno organizzati tra delegazioni regionali e vicariati: «Si concentreranno sulle strutture prefabbricate e sui progetti per la ricostruzione economico-sociale delle comunità, quindi dalla lettura dei bisogni al supporto psicologico, al microcredito...» dice La Regina. «Va però rimosso un ostacolo, la ritrosia a farsi aiutare – spiega il reggiano Gianmarco Marzocchini, delegato Caritas dell’Emilia Romagna –: è vero che ci siamo rimboccati le maniche, ma i danni sono gravi e con la brutta stagione interi paesi resteranno senza chiese e spazi comunitari. Un’emergenza da non sottovalutare. Gli italiani aiutino l’Emilia e gli emiliani si facciano aiutare».