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Reportage. I prelievi di sabbia e il clima hanno reso più difficile navigare sul Po

Paolo Viana, inviato a Ravenna martedì 16 luglio 2024

Quando suo padre accarezzava il fiume con il remo, la siccità era un ricordo. Solo il nonno, anche lui meatore, poteva dire di aver visto le sabbie emerse del ’22. Prima di allora e per molti decenni dopo, generazioni di barcaioli hanno continuato a navigare indisturbati da Sermide a Felonica, accompagnati dal frinire delle cicale. Pescavano storioni e campavano commerciando anguille e nasse. Di chiatte ne incrociavano parecchie finché i “sabbini”, strappando pezzo a pezzo l’alveo millenario, non trasformarono il Po in un unico grande canale, infestato dai pesci siluro.

«Sono decenni che l’estrazione di sabbia e ghiaie è vietata – ci racconta Francesco Malago – e il Po sta recuperando il suo equilibrio. Fortunatamente, il fiume cambia ogni giorno ed ogni giorno dobbiamo esplorarne i fondali, per trovare la via nell’acqua. Sono le nostre mappe a guidare diportisti e navi da carico». I meatori sono come i sioux, che sentivano l’arrivo dei bisonti. Rabdomanti al contrario, cercano la terra nell’acqua: quando ce n’è troppa, e una barca rischierebbe di arenarsi, la spostano in un altro punto, sempre nel fiume.

«Navighiamo da generazioni; prima usavamo i remi, adesso un motore a idrogetto che ci permette di attraversare anche tratti in cui ci sono poche decine di centimetri d’acqua – racconta Francesco –; la pertica aiutava a capire quanto fosse profondo il fondale, adesso lo fa l’ecoscandaglio. Ma la passione resta anche quando si diventa servizio pubblico». Al suo fianco, sul barchino dell’Agenzia Interregionale del fiume Po (Aipo), Leonardo Mosca, che viene da una famiglia di barcaioli di Comacchio, registra l’eco che sale dal fondale.

Anche lui passa la giornata a “toccare” il fondale e aggiornare le mappe di navigazione; posiziona boe e segnali che dicono, a chi li sa leggere, dove passare in sicurezza. Dalla barca, sembrano acque senza fondo; tuttavia, a male interpretare un segnale di tocca-scappa si finisce arenati. «Ci troviamo su un fiume a corrente libera: il livello non è mai costante e va misurato quotidianamente. Dalla fine degli anni Cinquanta, con le estrazioni di ghiaia e sabbia, l’alveo si è approfondito e la creazione dei pennelli che proteggono le sponde accelera la corrente. La piena arriva in fretta dalla Becca e se ne va altrettanto in fretta; una volta durava due settimane, ora quattro giorni»: Francesco ha preso il posto di Vittorino, il fratello maggiore. Il quale, a sua volta, ha sostituito il padre.

Ai tempi del genitore, le acque sostavano a lungo nelle lanche (i meandri abbandonati del fiume, ndr), dando il tempo ai pesci di riprodursi; adesso, corrono grosse e grasse, non incontrano alcun ostacolo nel loro trasportare a mare gli odori e i colori della pianura industriale, dal Monviso al Delta. Ci abbandoniamo anche noi a questo verdognolo Caronte, che con i suoi affluenti è lo scheletro del Nord industriale. Lo stesso fiume che disseta le campagne e le città trasporta la nostra cattiva coscienza, fatta di fanghi e veleni, tronchi strappati alle montagne che nessuno abita più e dalle stesse plastiche che ritroveremo galleggiare negli oceani. «Ma questo fiume è anche vita, è risorsa – racconta Vittorino – e talvolta umana pietà». Tornano alla memoria la tragedia del Polesine e le vittime recuperate dal padre.

Vittorino, Francesco e Leonardo rappresentano la “vecchia guardia” dei barcaioli. Oggi arrivano a ricoprire questo incarico, per concorso, anche giovani che non hanno radici così antiche. La stessa navigazione commerciale, che una volta era una risorsa importante per i paesi rivieraschi, è cambiata. Sul Po si trasportano quasi esclusivamente carichi speciali, quelli che proprio non conviene spostare in autostrada: per tutti gli altri, la difficoltà di una connessione intermodale, attraverso la quale imbarcare e sbarcare il carico su ferro o gomma, limita fortemente il ricorso alla via d’acqua, resa discontinua anche dalle precipitazioni. In questi giorni, l’acqua scorre a 2.600 metri cubi al secondo ma in anni siccitosi come il 2022 tutto si ferma: «Non potevamo muoverci neanche col barchino, figurarsi con le imbarcazioni di classe V, che vanno fino ai due metri di pescaggio…» ricorda Vittorino. Nel mese di luglio si scese a 160 metri cubi al secondo, contro i 400/450 della portata normale di Pontelagoscuro. Con un terzo dell’acqua, il mare Adriatico entra nel fiume anche per 40 chilometri. Il cuneo salino impedisce di dissetare campagne e città.

Eppure, quando, questa sera, Leonardo Mosca trasmetterà alla stazione del Boretto i dati rilevati a Pontelagoscuro nessuno salterà sulla sedia perché la portata è superiore ai valori “normali”. Analizzato con l’occhio degli esperti, infatti, il grande fiume è condizionato più dall’antropocene - termine coniato nel 2000 di Paul Kreutzen per indicare l’azione dell’uomo nella trasformazione della Terra - che dal cambiamento climatico.

«Negli ultimi 30 anni – spiega Francesco Tornatore dell’Autorità di bacino distrettuale del Po (AdbPo) – la precipitazione media nel distretto padano è rimasta pressoché costante, attestandosi attorno agli 86 miliardi di metri cubi. Quella che è cambiata è la variabilità fra gli anni per cui ad annate estremamente siccitose si alternano annate con un surplus anche significativo delle precipitazioni. Ma questa non è una sorpresa perché il bacino padano, come riportato anche nei Rapporti dell’Ipcc (il Gruppo Intergovernativo dell’Onu sui cambiamenti climatici), è un hotspot climatico, al confine tra due aree climaticamente molto differenti, il bacino del Mediterraneo ed il centro Europa».

Gli effetti del riscaldamento globale e della cosiddetta tropicalizzazione sono evidenti. Negli ultimi anni, le trombe d’aria, che prima erano rare, hanno acquisito una frequenza allarmante, come anche le cosiddette bombe d’acqua, precipitazioni compatte e concentrate come quelle che hanno scatenato l’alluvione in Emilia-Romagna. La “progressione” alluvionale nel trentennio non si discute - né lo fa l’Agenzia interregionale del fiume Po, che ha competenza per la sicurezza idraulica -, ma «non ha cambiato la morfologia del Po quanto l’hanno cambiata, e in modo decisivo, le attività antropiche come le estrazioni di sabbie e ghiaia, vietate ormai da vent’anni» afferma Tornatore.

Prelevando dall’alveo del grande fiume gli inerti necessari per sostenere la ricostruzione post-bellica, dagli anni Cinquanta fino alla fine del secolo, si è trasformato in un corpo idrico che avrebbe dovuto avere un assetto pluricursale, con rami intrecciati e isole laterali, in un immenso canale, profondo e stretto. «Un fiume in piena trasporta acqua e sedimenti; se togli i sedimenti, l’energia che trasporta la corrente deve essere dissipata in qualche modo – spiega il tecnico – e così il fiume finisce con l’erodere le sponde e soprattutto il fondo: è per questo motivo che in alcuni tratti si è abbassato anche di 7 metri negli ultimi 30 anni».

A peggiorare la situazione contribuiscono anche le sistemazioni d’alveo fatte, per ragioni diverse, su quasi tutti i corsi d’acqua del distretto, Po compreso. Dighe e traverse, se non gestite adeguatamente, fermano i sedimenti accentuando l’attivazione di fenomeni erosivi. Anche sulle spiagge adriatiche: senza le sabbie fini portate dalle piene del Po, il mare se le mangia.

Quindi, i cambiamenti territoriali ereditati della cattiva gestione fatta in passato del fiume vengono oggi aggravati dal cambiamento climatico e non il contrario. Per questo si sta realizzando un piano di rinaturazione del fiume che interessa il 20% dell’asta fluviale e che punta a riattivare una serie di lanche laterali: un intervento di riparazione che però non risolve l’annosa questione degli usi dell’acqua, in certi anni rara e preziosa. I volumi negli ultimi 30 anni sono oscillati tra i 121 miliardi di metri cubi del 2014 e i 56 di due anni fa: quando il fiume, il 24 luglio 2022, toccava, a Pontelagoscuro, il minimo storico di portata di 114 metri cubi al secondo, «a monte – precisa Tornatore – erano attivi nel distretto prelievi per i diversi usi per più di 800 metri cubi al secondo mentre a valle della stessa sezione avevamo le opere del Canale emiliano romagnolo che stentavano a prendere acqua e il cuneo salino risaliva fino all’incile del Po di Goro mettendo in crisi tutto il sistema irriguo del Delta».