Attualità

E ora si indaga per disastro ambientale

VINCENZO R. SPAGNOLO domenica 3 aprile 2016
ROMA Da giovedì, a Viggiano, comune lucano di 3.500 anime nell’alta Val d’Agri, molti cittadini sono inquieti. Il Centro Oli dell’Eni che dava lavoro a circa 300 persone (più altri 2mila nell’indotto) è fermo. I Carabinieri del Noe, su disposizione del giudice per le indagini preliminari di Potenza, hanno posto sotto sequestro preventivo alcune vasche del «Co.Va.» (Centro Oli Val d’Agri) e del pozzo di reiniezione «Costa Molina 2». Ciò ha determinato il fermo della produzione locale, circa 75mila barili di petrolio al giorno. Così gli abitanti della zona, preoccupati per le eventuali ricadute occupazionali, sono pure poco tranquilli per le prime risultanze dell’inchiesta, che tre giorni fa ha portato all’emissione di avvisi di garanzia per 37 indagati, tra funzionari e dipendenti di ditte di smaltimento, e agli arresti domiciliari per 5 dipendenti dell’Eni. Il timore di un disastro ambientale. I carabinieri, che lavorano anche sull’ipotesi di disastro ambientale, stanno verificando gli effetti dello smaltimento degli scarti di produzione nei terreni, nello stesso centro oli e presso gli impianti di Tecnoparco, nella Valle del Basento, e di altre aziende. Dal canto suo, l’Eni ribatte che «lo stato di qualità dell’ambiente, studiato e monitorato in tutte le sue matrici circostanti il centro oli» di Viggiano è «ottimo secondo gli standard normativi vigenti». Nell’ordinanza, viene contestata l’ipotesi di aver messo in piedi un’«attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti», in grado di movimentare e smaltire tonnellate di materiali pericolosi, contrassegnandoli con codici fasulli. Rifiuti pericolosi 'taroccati'. Secondo quanto annota il Gip nel provvedimento cautelare, il Cova di Viggiano produceva, in concomitanza con l’attività di estrazione petrolifera, «ingenti quantitativi di rifiuti speciali pericolosi (provenienti dalle vasche Ta002 e Tm001 della linea 560, contenenti sostanze quali metildietanolammina Mdea e glicole trietilenico)». Tali rifiuti, data la loro origine e composizione, avrebbero dovuto essere contrassegnati da codici particolari. Invece, secondo i magistrati di Potenza, «venivano dal management dell’Eni (nell’inchiesta si fa riferimento ad alcuni dirigenti, fra cui il responsabile del distretto meridionale Enrico Trovato e il suo predecessore, Ruggero Gheller) «qualificati in maniera del tutto arbitraria e illecita», usando il «codice Cer 16 10 02», non pericoloso. Il meccanismo avrebbe consentito, secondo l’accusa, «alla società petrolifera di smaltire ingenti quantità di reflui liquidi», con un trattamento non adeguato e «notevolmente più economico». Inoltre la parte rimanente dei «reflui liquidi» sarebbe stata trasferita «presso il Pozzo Costa Molina 2, dove i medesimi liquidi venivano reiniettati» (sebbene, annota il Gip, «l’attività di reiniezione non risultasse ammissibile per la presenza di sostanze pericolose»)i. I calcoli degli investigatori, ipotizzano risparmi complessivi tra il 22% e il 272% (in base a diversi preventivi acquisiti), pari a cifre che oscillano tra i 44 e i 110 milioni di euro l’anno. «Dispiace rilevare – ha detto tre giorni fa il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti – che per risparmiare denaro, ci si riduca ad avvelenare un territorio con meccanismi truffaldini». Seicentomila tonnellate. Nelle loro indagini, i Carabinieri hanno ricostruito i viaggi dei rifiuti liquidi pericolosi dal Co.Va. fino ai vari impianti («non tutti autorizzati»). Diverse aziende, provenienti anche da fuori regione (fra gli indagati figurano ad esempio un uomo e una donna collegati con un’azienda calabrese di Gioia Tauro) sarebbero state impiegate per lo smaltimento, dal 2013 fino ai giorni scorsi. Gli atti d’inchiesta riferiscono di un «594.671 tonnellate per gli anni 2013 e 2014» di rifiuti conferiti, trattati o smaltiti. L’uso delle sigle 'taroccate' era funzionale a risparmiare (il «Cer 16 10 02 comportava un costo di 33,01 per tonnellata » ed era usato al posto di altri «che comportavano costi superiori, fino a 160 euro). Ciò avrebbe consentito all’Eni, solo per gli anni 2013 e 2014, di risparmiare «costi di smaltimento – e dunque un profitto ingiusto – tra i 37.347.881 euro ed i 10.084.031 euro». Impianto «inefficiente», il problema emissioni . Poi c’è la questione delle emissioni, «uno dei settori di maggiore impatto ambientale del ciclo petrolifero». Secondo i magistrati, per «celare le inefficienze dell’impianto», i vertice del Centro Oli «decidevano deliberatamente di comunicare il superamento dei parametri » con una «condotta fraudolenta» o anche dando una giustificazione tecnica che «non corrispondeva al vero». Gli investigatori ipotizzano «manomissioni» delle comunicazioni agli enti di controllo, con lo scopo di non allarmarli: «Io ora preparo le comunicazioni... – dice un dipendente intercettato – Ci inventiamo... una motivazione». © RIPRODUZIONE RISERVATA Un’immagine del Centro oli di Viggiano (PZ), nella Val d’Agri.