Foggia. E in Puglia sono rinati i ghetti
Il 'Gran ghetto di Rignano' la baraccopoli a pochi chilometri da Foggia, nelle campagne di San Severo, contrada Torretta-Antonacci, ad alcuni mesi di distanza dalla demolizione continua ad essere punto di riferimento per molti immigrati africani giunti in Capitanata in vista della stagione del pomodoro. «Il 'Gran ghetto' non è mai morto, all’ interno vivono all’incirca 800 persone in condizioni ancora peggiori, ammassate in roulotte e tende. Altri sono sparsi in casolari poco distanti. Sono quasi tutti africani provenienti dal Mali, dal Senegal, e dalla Guinea Bissau – spiega un volontario dell’ex Progetto Presidio della Caritas Italiana, terminato lo scorso settembre –. Lì manca tutto, dall’ acqua alla luce.
Chi ha l’auto si sposta alla ricerca di fontane da cui prendere acqua potabile, gli altri devono arrangiarsi con quella utilizzata per irrigare i campi. Per quanto riguarda l’ elettricità chi può utilizza i pannelli solari, altri usano i generatori. La maggior parte all’ imbrunire accende le candele». All’indoma- ni della demolizione del 'Ghetto di Rignano' una parte degli immigrati, circa 200, fu trasferita a Casa Sankara, altrettanti presso il complesso immobiliare L’Arena, entrambe a San Severo. La maggior parte confluì nella zona denominata Ex Pista, vecchio aeroporto militare in disuso a ridosso del Cara (centro di accoglienza per richiedenti asilo) di Borgo Mezzanone.
«L’organizzazione sociale all’interno di quell’area – spiega Daniele Calamita, segretario Provinciale della Cgil – rispecchia quella tipica dei ghetti, vi sono molte situazioni di illegalità. Ciascuno cerca di inventarsi un mestiere, gli immigrati si improvvisano meccanici, costruttori di baracche o venditori ambulanti. Ci sono mercatini dove si può acquistare di tutto, generalmente vengono rivenduti oggetti ritrovati nei cassonetti della spazzatura o rubati. Vengono rivendute a buon mercato tantissime biciclette rubate perché i migranti per recarsi al lavoro hanno bisogno di un mezzo di locomozione, di conseguenza i ladri sanno di poter trovare potenziali acquirenti».
Ma l’immigrazione è anche tristemente legata al fenomeno del caporalato. Zone come la Pista a ridosso del Cara diventano un bacino di manodopera da utilizzare nella campagna del pomodoro o in altre raccolte. Ogni etnia ha un proprio caporale per motivi legati alla conoscenza della lingua. «È il caporale – prosegue Calamita – ad interfacciarsi con i datori di lavoro, conosce bene le aziende agricole, che si rivolgono a lui per richiedere manodopera a basso costo. Spesso per poter lavorare, il bracciante deve farsi carico del costo del trasporto e della colazione al sacco un panino - pari a cinque euro al giorno detratti dalla paga. Inoltre il caporale specula ulteriormente anche sul numero di cassoni raccolti. In genere percepisce un euro ciascuno e pretende che gli sia pagata anche la ricarica elettrica del cellulare».
Sull’ex Pista vivono immigrati di diverse etnie, Senegalesi, nigeriani, ghanesi, ma anche gente proveniente dal Pakistan e dall’India, «La situazione è drammatica, ormai in quell’area si possono contare centinaia di persone, un cantiere in costante espansione dove sorgono quotidianamente nuove baracche, tutte costruite con materiali di risulta, come legno, ferro e cartone - sostiene Antonio Russo, Segretario di Presidenza nazionale Acli con delega al Welfare –. Per evitare situazioni del genere bisogna creare le condizioni per un’accoglienza dignitosa, ampliando gli Sprar, (sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati) non è sufficiente limitarsi a gestire le emergenze. La Capitanata dovrebbe programmare l’accoglienza nelle varie stagioni agricole, l’allocazione di queste persone deve prevedere una fase di accompagnamento al lavoro, per combattere il sommerso è necessario offrire condizioni di lavoro migliori rispetto a quelle dei caporali. Altrimenti situazioni disperate come questa sono destinate a crescere».