Arezzo. Due mamme, un figlio e le regole Il tribunale di Arezzo smentisce Roma
Mater semper certa est, la madre è sempre certa. Così è stato per millenni di storia, ma così rischia di non essere più d’ora in avanti. La biotecnologia avanza, e il biodiritto – per dirla con una sentenza pronunciata nel 2014 dal tribunale di Milano – sembra messo con le spalle al muro. Così, ogni volta si divincola di qua e di là. E giudice che vai, sentenza che trovi. Luisa e Federica (i nomi sono di fantasia) volevano essere chiamate mamma – entrambe – non solo dal piccolo ottenuto in Spagna con la fecondazione assistita, ma anche dai documenti d’anagrafe di Anghiari, loro Comune di residenza. Il tribunale di Arezzo, però, ha detto no: non possiamo sostituirci al legislatore, inventando norme inesistenti, ha sostanzialmente scritto la sezione civile della magistratura toscana.
D’altronde, per l’articolo 269 del Codice civile, madre è colei che partorisce. E i due gemellini, in questo caso, li ha dati alla luce Federica. Tutto lineare, se non fosse che il tribunale di Roma ha sancito proprio tre giorni fa un contrario principio di diritto. Nella capitale, il problema era una carta d’identità: discriminatoria, secondo due donne “arcobaleno” che avevano ottenuto una bimba con l’eterologa, era la dicitura voluta nel 2019, sul documento, dal leader del Carroccio Matteo Salvini, quando era ministro dell’Interno: “padre: ...”, e “madre...” Fatto sta che i giudici capitolini, a cui si erano rivolte, hanno dato loro ragione: serve un’indicazione più neutra, questa la sintesi della sentenza, come potrebbe essere “genitore ...”, e “genitore...”.
Qualcuno ironizza: chi fa il genitore 1 (quello che compare per primo) e chi il genitore 2? Alessia Crocini, presidente di Famiglie Arcobaleno, ha plaudito alla sentenza. « Indicare una delle due donne come “padre” potrebbe configurarsi come reato di falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atto pubblico», ha dichiarato. Ma seguendo questo ragionamento, lo stesso potrebbe dirsi per la donna non partoriente: nel nostro ordinamento, non esiste una genitorialità femminile disgiunta dal parto. E l’uomo che ha fornito i gameti? Lui sì che sarebbe davvero il padre. In questa vicenda, nessun documento lo cita. E per le due donne sembra vada bene così. Un guazzabuglio simile – di fatto e di diritto – accade anche con un’altra frontiera della biogenetica: la maternità surrogata. La legge 40 del 2004 la vieterebbe, ma il condizionale suggerisce che così non sempre è. In Italia non vi sono cliniche che erogano questo servizio, ma tutte le volte che una coppia si reca all’estero – salvo poi rientrare in Italia con il bimbo in braccio, pochissimi giorni dopo il parto – ancora una volta il diritto non sa cosa fare.
La Cassazione, nel 2020, in un caso simile ha ritenuto che non vi fosse nessun reato, a patto che l’utero sia stato affittato in un Paese che non vieta questa pratica. La stessa Corte, però, nel 2013 aveva allontanato dai genitori e posto in adozione un bimbo frutto di maternità surrogata in Ucraina. E ancora: diverse Procure hanno ritenuto di incriminare i “committenti” di un bimbo all’estero per il reato di alterazione dello stato civile di un minore. Nella sostanza, questo il ragionamento dei pm, se due persone ottengono all’anagrafe la qualifica di genitore, ma non lo sono realmente, falsano la genealogia del bimbo. Anche qui, però, la Cassazione ha più volte stabilito che non vi sono i presupposti per una condanna. Se non si può più dire “padre” e “madre”, forse ha davvero ragione il tribunale di Milano: il diritto è messo con le spalle al muro.