Vieni in Polesine ed è come rientrare nel ventre di tua madre. L’acqua del Delta ti circonda, ti culla e ti schiaffeggia a ogni ora del giorno. Che pedali nella nebbia di Rosolina, che ti pieghi sulla terra bruna per recidere il radicchio chioggiotto, o che strizzi gli occhi per capire dove finisca davvero la laguna, l’acqua è ovunque. Negli abiti, nel respiro e persino nella polenta gialla, quando ci sguazza la frittura di novellame. È questa madre onnipresente che colora a pastello i
casoni e le valli di pesca, lei che nutre e, talvolta, lei che uccide. Come nel 1951, quando il Po ruppe gli argini a Occhiobello. Di peggio riuscì a fare solo la rotta di Ficarolo, che nel 1152 rimodellò la regione, consegnandoci il Delta come lo conosciamo oggigiorno. «Quella del Polesine è stata una catastrofe nazionale con più di ottanta vittime e 180mila sfollati, 80mila dei quali lasciarono definitivamente questa terra - ricorda Angelo Zanellato, presidente del Cosvipo -, ma da allora, il Paese ha imparato a difendersi dal rischio idrogeologico e i polesani hanno rispolverato la loro antica competenza in materia di regimazione delle acque, che permette di trasformare il nemico in una risorsa». Il presidente del Consorzio per lo sviluppo del Polesine conosce uno per uno questi argini. Di mestiere fa il politico, di professione l’agronomo. Sostiene un ambizioso programma di rilancio del Delta rodigino, basato sul turismo e sulla valorizzazione dei prodotti locali, che alimentano già oggi un’economia di tutto rispetto: il settore ittico, ad esempio, vale 450 milioni e dà lavoro a 1.200 famiglie. «L’anguilla ha perso mercato perché è cambiato il consumo - argomenta - ma le nostre vongole sono vendute in tutta Europa». Quando Zanellato ti racconta che il riso Igp del Delta è il migliore d’Italia non t’imbonisce con storie di mondine e sacchetti di finta iuta: dall’elicottero non lo vedi, e se lo vedessi non lo capiresti, ma quelli rodigini sono «terreni di medio impasto», i migliori per tirar su pannocchie da risotto, poiché «non son torbosi come quelli ferraresi». Osservazione ineccepibile, sia sul piano pedologico che su quello del campanile. La laguna e il mare, il mare e la terra, orizzonti spalancati e panorami mozzafiato: questo è un mondo di abbracci simbiotici, eppure tra ferraresi e veneziani - il Polesine era un dominio di terraferma della Serenissima - non ci si abbraccia dai tempi del taglio di Porto Viro. Nel ’600, morto l’ultimo Este, il Doge approfittò della debolezza del Papato per deviare il Po di Venezia verso la sacca di Goro: riuscì ad evitare l’interramento del porto di Chioggia e della laguna di Venezia, ma accelerò quello del Ferrarese, condannando la città estense al declino. Po di Venezia, Po di Goro, Po della Donzella, Po di Maistra, Po di Tolle, Po di Pila... ramo dopo ramo, ancora oggi il delta scompone e ricompone la forza idraulica del fiume che nei secoli, trascinando e sedimentando, ha creato dal nulla migliaia di ettari di terra arabile. Vista dall’elicottero, la campagna liberata dalle acque si presenta come una scacchiera perfetta, un giardino all’italiana d’ispirazione cubista. È figlia della «antica competenza in materia di regimazione delle acque» richiamata da Zanellato, una perizia che si è formata con i monaci di Pomposa, è stata alimentata dagli Este e dalla repubblica di San Marco, ed è arrivata fino a Mussolini, all’Ente per la colonizzazione del Delta Padano, al Magistrato del Po (oggi Aipo) e agli attuali consorzi di bonifica. La natura, nel frattempo, ha continuato a fare da sé: le sabbie portate dal fiume allungano gli scanni e colmano le lagune, nelle zone umide di Porto Tolle e Comacchio, sotto le botti dei cacciatori (affittarne una nelle valli da pesca, dove si coltivano cozze e vongole, può costare anche 30mila euro all’anno) si preparano nuovi campi. L’uomo può decidere "dove", non "se", eppure in questa pianura apparentemente immobile, tra Ravenna a Venezia, la lotta per orientare la forza dell’abbraccio tra le acque e le terre emerse dura da sempre e provoca le migliori intelligenze. A Mesola sorge la Torre Abate, una chiavica secentesca a porte vinciane, il sistema progettato dal genio di Vinci per bonificare, sfruttando la dinamica delle maree, le terre ubicate sotto il livello dell’Adriatico. A Ca’ Vendramin, sede del museo regionale della bonifica, troviamo invece le idrovore che dal 1903 al 1969 tennero all’asciutto l’isola di Ariano. A centinaia lavorano ancora oggi, giorno e notte, per liberare dalle acque quella che tornerebbe a essere un’immensa palude. «Per secoli abbiamo utilizzato diversi sistemi di pompaggio meccanico, a partire da quelli basati sul sistema della ruota, ma la svolta avvenne nel 1850, quando si poté sfruttare il motore a vapore» spiega Lino Tosini, direttore del museo. È un’autorità assoluta in materia, avendo diretto per mezzo secolo i consorzi di bonifica del Polesine e dell’Adige. Per conto della fondazione che gestisce il museo sta studiando l’acquacultura nella laguna di Hue, in Vietnam. «Il sistema Delta Po Adige - racconta - è una sorta di biosfera in cui uomo, flora, fauna e forze della natura s’influenzano reciprocamente». Nel bene e nel male: nel 1951 l’Ente Delta Padano dovette occuparsi della riforma agraria ed espletò i suoi compiti con tale lena - strappando alla laguna anche i 2200 ettari delle valli della Donzella - che adesso sui 170mila ettari di terre arabili che corrono tra il Po e l’Adige vivono solo 250mila persone. Il programma di bonifica non bastò infatti a riportare nel Delta tutti gli sfollati dell’alluvione di quell’anno.Per contro, grazie al consorzio di bonifica nel 1987 sul Po di Gnocca e sul Po di Tolle sono state costruite le prime barriere antisale che difendono irrigazioni e acquedotti dall’invadenza dell’Adriatico: «Se ne parla solo negli anni siccitosi - dice Tosini, che le ha progettate - ma il problema del cuneo salino è ancora attuale, al punto che le barriere dovrebbero essere revisionate alla luce delle mutate portate medie del fiume». Il cuneo salino descrive la risalita delle acque salmastre nell’alveo del fiume, anche per chilometri, a causa del minor deflusso provocato dalla siccità o dalle troppe captazioni che impoveriscono la portata di Po e Adige. Il problema ha i tempi lunghi della natura ma in un’area a lampante vocazione agricola e turistica è diventato un nemico insidioso, più delle stesse alluvioni. «Per riportare alla normalità il Polesine nel ’51 - conferma il direttore del museo -, furono necessari solo sei mesi di lavoro, e da allora, se si eccettuano i terreni golenali, la situazione è sotto controllo, al punto che il Polesine è considerato una regione sicura sotto il profilo idrogeologico. La battaglia contro il cuneo salino, invece, dura da anni ed è tuttora aperta».