Dopo il voto. Pd, Letta respinge lo scioglimento e chiede un congresso costituente
Enrico Letta, segretario del Pd sconfitto
Il Pd non si scioglie, ma vivrà un «Congresso costituente». Enrico Letta, dopo giorni di consultazioni con i vertici del partito, dismette i panni da traghettatore che si era dato nel lunedì post-elettorale, e reindossa in pieno quelli di segretario che non solo accompagna il partito verso la nuova leadership, ma indica anche la rotta. A nome, a quanto traspare dalla batteria di dichiarazioni favorevoli, dei principali capicorrente dem, al netto dei distinguo dei riformisti di Base democratica e del silenzio assoluto di Dario Franceschini. Silenzio anche da chi si è reso disponibile ad assumere la leadership.
La formula scelta dall’ex premier per anticipare i contenuti della Direzione di giovedì prossimo è una lettera agli elettori e ai militanti. «Abbiamo il tempo e abbiamo la forza morale, intellettuale e politica per rimetterci in piedi», sprona Letta per rispondere in tempo reale a Rosy Bindi, Gad Lerner, Tomaso Montanari e ai firmatari di un appello che chiede di sciogliere i dem e pensare a un nuovo «campo progressista», fondato sulla «radicale discontinuità» sia del Pd sia di M5s. C’è un fronte che vede i dem alle battute finali e immagina «percorsi comuni» con i pentastellati, sino all’ipotesi di un partito unico, seguendo il ragionamento secondo cui l’astro di Conte, dopo aver sorprendentemente ridato slancio a M5s, potrebbe riabilitare nell’immaginario popolare una più ampia forza «progressista».
Letta, e con lui la maggioranza dei ceti dirigenti, non è d’accordo. Mentre c’è da organizzare una «opposizione dura e intransigente», si avvierà un «confronto serissimo e sincero tra di noi» per «entrare a fondo nei problemi». Un Congresso lungo, quindi, non lampo. In quattro fasi. La prima, la «chiamata», per definire il perimetro, ovvero per riaprire le iscrizioni e l’adesione al partito di associazioni e movimenti, a partire da chi ha partecipato alla lista Democratici e progressisti. Poi i «nodi», da affrontare con il modello delle "Agorà", che Letta rivendica nonostante la base elettorale del partito non si sia allargata. Quindi il «confronto» per arrivare a sole due candidature, evitando quindi che il fiorire di mani alzate di questi giorni serva a stratificare rendite di posizione nel partito. Infine, le «primarie».
Le quattro fasi vogliono dire tempi non brevi. È l’obiezione di Base democratica, i riformisti che dall’addio di Renzi sono lì nella terra di mezzo. «I tempi devono essere chiari», è la richiesta della corrente del ministro della Difesa Lorenzo Guerini che credono nell’opzione-Bonaccini come collante del partito e che considerano un percorso lungo fumo negli occhi.
Letta dice che si può «iniziare rapidamente» e che l’obiettivo è «mettere in discussione tutto», ma quando si andrà a concludere la traversata non lo accenna. Tuttavia, dalle capigruppo ad Andrea Orlando, passando per Francesco Boccia, la segreteria e gli esponenti di spicco dei nuovi gruppi di parlamentari è un fiorire di «bene, avanti» nei confronti del segretario. Segno che il gruppo dirigente, pur diviso, si è compattato però di fronte alla minaccia esterna. «Bene, avanti» anche quando Letta dice che serve una «rigenerazione del gruppo dirigente, contenuti forti e volti nuovi sono entrambi necessari». Perché «gli uni senza gli altri rischiano di trasformare il Congresso in un casting e in una messa in scena staccata dalla realtà».
Chiaro che in quel «mettere tutto in discussione» può entrarci anche il nome e la struttura del partito. Nessun riferimento, dal segretario, alle alleanze. Letta considera M5s e Terzo polo come soggetti che vogliono avventarsi sulle spoglie del Pd. Perciò resta alla larga dall’argomento. Anche se le Regionali 2023, con Lazio e Lombardia in gioco, sono già alle porte.