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L'ambasciatrice italiana. «Donne afghane, la nostra lotta per i loro diritti»

Antonella Mariani giovedì 23 novembre 2023

Donne afghane cancellate dal burqa

Una conferenza internazionale sull’Afghanistan, per tornare a parlare della situazione drammatica del Paese e di quella delle donne in particolare. E poi la mobilitazione delle diplomazie, anche quella italiana, proposte di legge mirate al riconoscimento dei titoli di studi delle profughe nel nostro Paese, il coinvolgimento della società civile e del mondo dell’università e della scuola sul tema. Perché quello che sta accadendo a Kabul ci coinvolge tutti. Getta le basi di un impegno rinnovato e concreto il dibattito innescato ieri nella Sala Caduti di Nassirya del Senato in occasione della presentazione del libro di Avvenire “Noi afghane, voci di donne che resistono ai talebani” (collana Pagine prime di Vita e pensiero), a cui hanno presenziato diplomatici e politici impegnati su questo tema. È in occasione dell'evento che abbiamo intervistato l'ambasciatrice italiana per l'Afghanistan Natalia Quintavalle, in Italia per partecipare all'evento L'Eredità delle donne in corso a Firenze.

La parola magica è engagement. Tenere aperto il dialogo perché la situazione possa cambiare. Natalia Quintavalle è pragmatica, come si addice a una ambasciatrice di livello. Parlare con i taleban non è la cosa più facile del mondo, ma gli obiettivi sono cruciali: ripristinare un livello accettabile di libertà e di diritti per le donne è uno dei più importanti. Nominata dalla Farnesina nel settembre 2022 , Quintavalle accetta di parlare con Avvenire mentre è in viaggio verso Firenze, dove domenica 26 novembre parteciperà a un panel di discussione sull’Afghanistan, a fianco della ex sindaca di Maidan Shahr, Zarifa Ghafari, alla sesta edizione del Festival “L’Eredità delle donne”.

Ambasciatrice Quintavalle, la sua sede non è Kabul ma Doha, in Qatar. In cosa consiste il suo lavoro di diplomatica “fuori sede”?

Il governo di Kabul non è riconosciuto dalla comunità internazionale. Nessun Paese europeo ha l'ambasciata in Afghanistan, mentre sono presenti ambasciate di Cina, India, Russia, Turchia e dei Paesi confinanti. È attiva una delegazione dell’Unione Europea, guidata da una funzionaria italiana. Il nostro lavoro a Doha è atipico e consiste nel mantenere i rapporti con i colleghi delle altre ambasciate fuori sede, con i funzionari delle organizzazioni internazionali e italiane che operano in Afghanistan, con gli afghani esuli, soprattutto con le donne, e con l’ufficio politico dei taleban in Qatar.

Quando parla con i taleban, riesce a far filtrare le preoccupazioni per i diritti e la libertà delle donne?

Ogni volta che dialoghiamo con le autorità de facto a Doha, iniziamo con una lunga lista di contestazioni sulle loro politiche, in particolare sul diritto delle donne all’istruzione e al lavoro. Loro rispondono riversandoci addosso contestazioni e critiche, attaccando la Nato, gli Usa, la Ue…

L'ambasciatrice italiana Natalia Quintavalle - .

Un rituale. E poi cosa succede?

Poi si inizia a parlare di cose concrete: interventi umanitari, lotta al terrorismo, economia. Di recente ho incontrato il ministro della Salute e abbiamo discusso di sanità. Camminiamo su un filo teso: nessun Paese della comunità internazionale riconosce il regime dei taleban ma ciò non toglie che si stia facendo strada l’idea che la parolina magica sia engagement con le autorità di fatto per superare lo status quo.

È difficile però non reclamare la riapertura delle scuole alle ragazze.

Lo facciamo. Ma sappiamo che la maggior parte dei decreti proviene dall’emiro, il capo religioso che sta a Kandahar, e con il quale non abbiamo contatti. Le autorità de facto ci dicono che sono favorevoli alla riapertura delle scuole alle ragazze, ma che si deve aspettare che l’emiro ritiri il provvedimento che le aveva sospese.

Come si esce da questa situazione?

Penso che un aiuto possa venire dal recente rapporto del Coordinatore speciale dell’Onu per l’Afghanistan, Feridum Sinirlioglu, che in sostanza dice che non può rispondere alla richiesta dell’Afghanistan di essere reintegrato nelle istituzioni internazionali finché permane l’esclusione della donne e delle ragazze dall’istruzione, dal lavoro e dalla rappresentanza.

Una strada potrebbe essere quella di intensificare l’insegnamento a distanza dall’estero?

Molti programmi di educazione online vengono organizzati dalle stesse ragazze afghane che studiano fuori dal Paese e dalle Ong. È una strada da sostenere, bisogna però considerare che l’accesso a internet è saltuario e limitato a una parte piccola del territorio. Ma sembra che i taleban vogliano percorre un’altra strada.

Qual è la strada scelta dai taleban?

L’idea che emerge è di privilegiare le scuole religiose, che anche le ragazze potranno frequentare benché separatamente dai coetanei maschi. Sono scuole ancora da costruire, ma la strada sembra questa. È una strada scivolosa, lo sappiamo, ma consideriamo il contesto: le giovani afghane ci chiedono di non essere lasciate chiuse in casa. Dobbiamo ascoltarle. Il tasso di suicidi tra le ragazze è aumentato, loro non vedono alcun futuro e quindi ogni possibilità di uscire dall’isolamento va presa in considerazione.

Quali sono i campi privilegiati dell’azione diplomatico-umanitaria dell’Italia?

Siamo molto attivi nel settore della salute, fondamentale per il benessere della popolazione e anche uno dei pochi in cui le donne afghane ancora lavorano. Si tratta dunque di un intervento che ha una duplice valenza: umanitaria e di supporto all’empowerment femminile.

C’è in atto una doppia crisi umanitaria: le conseguenze del terremoto dello scorso ottobre ad Herat, con oltre mille morti, e il rimpatrio forzato di un milione di profughi afghani dal Pakistan. Una situazione difficile.

Sì, è così. Ma a causa di questa doppia emergenza i taleban hanno capito che il sostegno della comunità internazionale è indispensabile e hanno accettato l’idea che la distribuzione degli aiuti coinvolga anche donne afghane, a cui era stato proibito, e non solo operatrici straniere. Vogliamo vederci un segnale positivo dettato dalla necessità.

Ambasciatrice Quintavalle, qual è il suo auspicio per le donne afghane?

Le donne afghane con cui parliamo ci chiedono di non abbandonarle. Ecco, spero che non si crei una frattura tra le donne che si trovano in Afghanistan e le afghane della diaspora. Noto che le prime ci chiedono di continuare a parlare con i taleban. Le seconde tendono ad avere un approccio più severo. È comprensibile. Ma non è il momento delle divisioni: dobbiamo essere tutti dalla stessa parte e mantenere aperto il dialogo, sperando che grazie ad esso l’Afghanistan si avvii nella direzione indicata dall’Onu. Prima si garantiscono alle donne i diritti fondamentali, poi si parlerà della riammissione del Paese nella comunità internazionale.