Migranti. Cinque anni di indagini e menzogne: cadono tutte le accuse per don Zerai
Don Zerai
Cadono definitivamente le accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina contro don Mosè Zerai. Da ieri è ufficiale: dopo mesi di rassicurazioni verbali il sacerdote ha ricevuto dal suo legale il decreto di archiviazione. Ci sono voluti 52 mesi di indagini alla procura di Trapani per arrivare al decreto datato effettivamente dicembre 2021. Ma con la spedizione fanno in tutto 57 mesi di attesa per dimostrare che le accuse infamanti erano infondate.
Era il 9 agosto 2017 quando venne notificato l’avviso di garanzia al sacerdote eritreo candidato al Nobel per la pace nel 2015 e impegnato da anni negli aiuti umanitari ai profughi. Era stato iscritto nel registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla Ong tedesca Jugend Rettet con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Le indagini erano cominciate nel novembre 2016. «Non ne sapevo nulla – afferma il prete – e quello che più mi addolorò è che lo appresi dai giornali. Mi trovavo in viaggio in Etiopia quando ricevetti la chiamata di un confratello che mi lesse i titoli dei quotidiani».
Don Zerai è fondatore e presidente dell’agenzia di informazione Habeshia, “salvagente dei migranti”, e ha sempre offerto assistenza telefonica a chi si accinge a partire, avvertendo le autorità quando imbarcazioni che attraversano il Mediterraneo si trovano in difficoltà per organizzare il salvataggio. Una prassi consolidata e del tutto legale che il sacerdote ha sempre seguito in mare fin da quando i migranti erano detenuti nella Libia del rais, il colonmello Gheddafi, e in terra quando lanciava l’allarme per i disgraziati che finivano nelle mani degli spietati predoni beduini trafficanti di organi nel deserto egiziano del Sinai.
«Prima ancora di informare le Ong – ribadisce don Mosè – dopo aver ricevuto le chiamate dei profughi in partenza dalla Libia ho ogni volta chiamato la centrale operativa della Guardia costiera italiana e il comando di quella maltese. Non ho mai avuto rapporti con la Iuventa (posta sotto sequestro dalla Procura trapanese) né, tantomeno, ho mai aderito a chat segrete e ho sempre comunicato attraverso il mio cellulare».
Ma poi parte l’inchiesta con l’accusa di aver agito in complicità con quei trafficanti che lui ha sempre combattuto. E su di lui e la sua opera ha gravato questa cappa estremamente pesante. È stato colpito un simbolo scomodo, un prete africano che dall’Italia aiuta gli africani a raggiungere vivi le coste europee e poi a chiedere asilo. In questi anni di attesa della giustizia il sacerdote eritreo nato nel 1975 all’Asmara e poi arrivato come rifugiato in Italia negli anni 90, ha subito una campagna denigratoria condotta da testate giornalistiche anti mmigrazione, man mano più pesanti durante la campagna elettorale del 2018 e il governo gialloverde. Senza contare gli attacchi condotti a ogni livello dal regime eritreo che non gli perdona l’aiuto a migliaia di profughi in fuga dal servizio militare a tempo indefinito e dalla repressione nel piccolo stato caserma del Corno d’Africa.
«Non ho mai avuto nulla da nascondere – ribatte – perché ho sempre agito alla luce del sole e in piena legalità. Ho sempre aver inviato segnalazioni di soccorso all’Unhcr e a organizzazioni come Medici senza frontiere, Sea Watch, Moas e Watch the Med che in quegli anni intervenivano in mare. Non ero neppure favorevole al ritiro delle navi militari italiane dal Mediterraneo ed ero contrario alla presenza delle navi delle Ong. Dicevo che facevano comodo al potere politico perché salvavano vite umane, ma allo stesso tempo sarebbero diventate un facile capro espiatorio. E così è stato, ma non pensavo di finire coinvolto anch’io».
Il decreto di archiviazione di Trapani, oltre a riconoscere l’estraneità di don Zerai alle accuse, ha escluso ogni addebito verso i mediatori culturali (che erano tali!) a bordo, i membri dell’equipaggio e la capitana della nave Iuventa.
Non porta rancori, si definisce un «cireneo». Il suo ministero lo porterà tra qualche mese in Canada a occuparsi di altri migranti, gli italiani. Ma il cellulare per i profughi non lo spegnerà.
CHI E' - Dalla parte degli ultimi
«Un pioniere». Così la rivista americana Time definiva nel 2016 Abba Mussie Zerai, per tutti don Mosè, fondatore della Ong Habeshia per l’integrazione degli immigrati del Corno d’Africa. Noto come “l’angelo dei profughi”, don Zerai stesso ha un passato da profugo: 47 anni, scalabriniano, eritreo di Asmara, nel 1992 è fuggito a Roma. Poi gli anni duri da migrante in cui matura la vocazione, il sacerdozio, l’impegno per gli ultimi e la candidatura al premio Nobel.