La riflessione. Il messaggio di don Milani: i poveri non possono esserci «stranieri»
Don Lorenzo Milani con i suoi bambini (Ansa)
Intervento di Marco Tarquinio a “Insegnare a tutti”, evento dedicato il 5 giugno 2017 dal Ministero dell'Istruzione a don Lorenzo Milani a 50 anni dalla morte.
(Brano di un testo del priore di Barbiana e riflessione).
Da “L'obbedienza non è più una virtù” (1965)
Non discuterò qui l'idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.
E se voi avete il diritto (...) di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che
approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.
Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona
(...) Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei.
Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa.
Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.
Articolo 11 «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli...».
Articolo 52 «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino».
Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.
(...) Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L'obbedienza a ogni costo? E se l'ordine era il bombardamento dei civili, un'azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l'esecuzione sommaria dei partigiani, l'uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l'esecuzione d'ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l'ordine d'un
ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?
Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. (...) Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l'errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima.
Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d'odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano.
Lorenzo Milani, sacerdote
La riflessione di Marco Tarquinio
Questo testo è la sintesi di una formidabile lettera milaniana, che avrei voluto leggere per intero, e che basta a se stessa, nel senso che non ha alcun bisogno di commento. È di una tale forza che ogni parola “altra” può suonare di troppo, o dire
troppo poco. Per questo cercherò semplicemente di accompagnarne il testo. Mettendogli accanto alcuni pensieri che la visione e l’azione di don Lorenzo Milani ispirano e aiutano ad articolare.
Comincio, però, da una parola detta e non scritta. Quella di una voce che ho ascoltato stamattina, 5 giugno 2017, a “Prima Pagina” su Radio3. E il conduttore del nostro incontro Marino Sinibaldi, che di Radio3 è direttore, sa che non lo farò per caso né per piaggeria. Durante quella trasmissione, una giovane donna abruzzese, chimica farmaceutica, da nove anni emigrata per lavoro in Gran Bretagna, ha tessuto al telefono una lode asciutta ed efficace della forza buona rappresentata dalla Scuola e dalla Università italiane. Di qualità alta, frequentate e soprattutto frequentabili ancora oggi da tutti coloro che vogliono davvero farlo. Ha detto di quanto la sua preparazione, frutto dei diversi livelli del nostro sistema nazionale di istruzione, sia stata apprezzata e valorizzata in questi anni di lavoro all’estero. Questa è la vera “buona scuola” e la buona università. Con difetti e debolezze, ma “di tutti”. E don Milani ci direbbe che non possiamo buttarla via neanche a parole. Perché è uno strumento che fa dell’Italia una Patria nel senso che lui intendeva e che tra poco anch’io proverò a dire.
Abbiamo la fortuna, anzi vorrei dire la grazia, di essere nati e cresciuti e di poter essere cittadini di un Paese speciale, che ha una bellezza speciale e una collocazione speciale, geografica ma anche morale e spirituale in Europa, nel Mediterraneo e nel Mondo. Siamo partecipi della vita di un Paese che ha un clima speciale e una cultura speciale, e che si è dato una specialissima perché davvero formidabile Costituzione – e voi sapete che la Costituzione è la “prima legge”, quella che fonda la convivenza civile che chiamiamo Repubblica. Per questo anch’io sono tra quanti aspettano con impazienza il giorno in cui nelle nostre scuole a italiani per nascita e a italiani per scelta o migrazione forzata si garantirà un insegnamento certo e costante dei valori e dei princìpi costituzionali che sono senso e “misura comune” della nostra con-cittadinanza.
Ma è un fatto: abbiamo tutto questo e magari non ce ne rendiamo conto. E magari diamo anche credito a quelli che ci spiegano che noi italiani ed europei siamo messi così male che non possiamo permetterci altra speranza e altra ambizione se non quelle di riuscire a chiuderci dentro le nostre frontiere e le nostre case, dentro – scusate se lo dico chiaro – i nostri egoismi, perché queste e questi sarebbero la nostra vera Patria.
Io penso, con don Milani, che se ragionassimo così, finiremmo per perdere noi stessi, cioè per non capire più perché stiamo al mondo, da uomini e donne nati in Italia e da persone eredi di una straordinaria e fattiva cultura civile.
Don Lorenzo Milani, da cittadino e da cristiano, lo fa capire molto bene anche in questo brano dove dice cose splendide ad alcuni suoi fratelli di fede e di sacerdozio che nel 1965 avevano dimostrato di aver così mal compreso il Vangelo di Gesù e la Costituzione della Repubblica da arrivare a imbastire, attraverso le pagine di un giornale, La Nazione, una pubblica e dura polemica contro coloro che in nome della coscienza, pagando un alto prezzo personale, decidevano di obiettare
radicalmente alla guerra.
Don Milani qui riesce a far sentire che la libertà e la sovranità degli Stati e l’autonomia e la sovranità delle persone hanno senso solo se sono coniugate con la solidarietà.
È stato detto che nessuno si salva da solo. È vero. E insieme a don Milani dobbiamo imparare a riconoscere a che nessuno può essere libero da solo, e che nessuno può sentirsi padrone del mondo – o anche solo di un pezzo di mondo, una Patria fisica o ideale appunto – se ci sono persone che soffrono e devono lottare per sopravvivere mentre vengono private dell’essenziale.
Nessuno è libero e nessuno può pensare di avere una Patria in cui rinserrarsi finché ci saranno uomini e donne poveri per oppressione e per ingiustizia, per persecuzione e per sfruttamento, per colore della pelle, per maltratta fede religiosa o per imposta condizione di ignoranza. Ci sono molti modi di fare la guerra e quello che contrappone senza scampo e senza fraternità coloro che in questo senso, il senso di don Milani e di ogni persona di retta coscienza, possiamo definire i “poveri” e i “ricchi” è il più terribile di tutti, e il più feroce. Persino peggiore del terrorismo che tanto ci insidia e che noi tutti tanto condanniamo. Anche perché la guerra dei poveri (sono soprattutto loro a essere spediti da sempre in battaglia per conto d’altri) e sempre guerra contro i poveri, e quasi mai viene riconosciuta come guerra vera.
Eppure essa è il cuore nero di ogni conflitto. Eppure fa milioni e milioni di vittime ogni anno anche là dove non cadono le bombe. Penso a tutte le donne e a tutti gli uomini, da tutti i bambini e a tutte le bambine che vengono schiantati dalla fame, dalla sete, dalla mancanza di cure anche elementari, dal dover vivere in luoghi resi insalubri e persino impossibili dall’incuria, dalla violenza, dall’avarizia o dall’avidità di altri esseri umani.
Per questo dico che noi italiani dobbiamo essere consapevoli della grande ricchezza che ci è affidata, ma non possiamo esserne gelosi. A tutti e a ciascuno spetta di imparare a vivere l’Italia come madre da amare e rispettare, e l’umanità come patria da riconoscere e difendere, soprattutto quando è povera, sofferente, scartata.
Dobbiamo aver cara, come ci ha raccomandato don Milani, la distinzione tra il male e il bene. E dobbiamo aver chiaro, come ci ha suggerito il filosofo Emmanuel Mounier, che bisogna cambiare già oggi, in ogni oggi del mondo, il modo di pensare e fare la società degli uomini e delle donne. E non perché la nostra società sia "cattiva" in sé, ma perché è ancora e profondamente "ingiusta".
È per questo che mai, ma proprio mai, i poveri possono esserci "stranieri".
Marco Tarquinio