Il caso. Divorzio possibile via mail. Un rischio da scongiurare
Divorzi anche via mail. Potrebbe sembrare solo una curiosità in questo periodo flagellato da tante situazioni drammatiche. Eppure la scelta di alcuni tribunali di permettere la definizione in via telematica dell’udienza finale, quella che sancisce anche formalmente l’addio tra i due coniugi, non è una buona notizia. Può essere che, quando l’emergenza coronavirus sarà superata, tutto ritorni come prima, ma non sono pochi i giudici e gli avvocati, nei tribunali dove il divorzio via mail è stato reso possibile – Torino, Vercelli, Verona, Monza tra gli altri – che spingono per conservarla a tempo indeterminato.
Va detto che neppure adesso, sotto la pressione dell’emergenza sanitaria, tutte le separazioni consensuali o i divorzi congiunti possono essere risolti con un’udienza virtuale e senza la presenza dei coniugi. Possibile solo per quelle pratiche in cui sono già state fissate tutte le modalità dell’intesa. L’esigenza di sbloccare in modo “non convenzionale” le situazioni arrivate alla fase finale senza reciproche contestazioni era stata sollecitata a causa del lungo blocco delle attività giudiziarie causa coronavirus. Una situazione d’emergenza che aveva imposto il rinvio di tutte le udienze. Alcuni casi sono così stati fissati a dopo l’estate, con le proteste inevitabili delle persone costrette ad attendere altri mesi – magari dopo iter complessi ed estenuanti – per la definizione delle rispettive situazioni coniugali.
Molto spesso si attende una sentenza di divorzio per regolarizzare un’altra relazione e per dare una cornice più corretta a contenuti esistenziali che già si erano intrecciati ai precedenti. Tutto comprensibile e tutto largamente noto purtroppo, se è vero che, secondo gli ultimi dati Istat (2018) oltre 350 mila persone nel nostro Paese vivono ogni anno la sconfitta di una separazione o di un divorzio. Il fatto però che l’atto finale dell’iter giudiziario possa arrivare anche solo con una mail aggiunge una nota stonata a una situazione già difficile. Come se lo Stato, nel momento in cui due persone decidono pubblicamente di porre la parole fine alla propria relazione, manifestasse il suo disinteresse e ammettesse che quella decisione è così irrilevante da poter essere chiusa, senza formalità, senza neppure una firma apposta di fronte all’autorità di un giudice.
Più importante l’esigenza di concedere ai due ex la possibilità di archiviare senza ulteriori rimandi la propria storia d’amore o più importante il fatto di sottolineare da parte della giustizia che quell’unione era così importante, anche dal punto di vista sociale, da non poter essere liquidata con un messaggio di posta elettronica? Ecco perché questa retromarcia simbolica dello Stato di fronte alla fine di un matrimonio – anche se per ora limitata ad alcuni tribunali – lascia una sensazione di sconfitta e segna l’avvio di un altro pendio inclinato dagli esiti poco rassicuranti per quanto riguarda all’attenzione pubblica verso matrimonio e famiglia. Facile capire perché. Una norma, una prassi giudiziaria finisce per incidere pesantemente, nel bene o nel male, nel costume e nella mentalità collettiva.
È successo così dopo l’approvazione della legge sul divorzio breve. Tra 2015 e 2016 i divorzi sono passati da 50mila a 80mila, per poi arrivare a 99mila l’anno seguente. Mantenendosi poi stabili anche nelle ultime rilevazioni. Ora, se si arrivasse ad estendere questa prassi ultralight per separazioni e divorzi anche dopo la fine dell’emergenza covid, è facile prevedere un’ulteriore scelta al ribasso. Forse per questo un tribunale importante come quello di Milano, con una sezione famiglia che da tempo “fa scuola” per le sue modalità di approccio al tema, ritiene che il valore dell’udienza tradizionale rappresenti un baluardo da non superare, anche per accompagnare i coniugi all’atto finale aiutandoli a percepire il significato delle scelte decise e sottoscritte.