Attualità

Dibattito. Smartphone e social vietati agli adolescenti: il nostro sì, il nostro no

Viviana Daloiso e Pietro Saccò martedì 10 settembre 2024

Due studenti sistemano il loro smartphone nell'armadietto in una scuola francese. Oltralpe è scattato il divieto dell'uso del dispositivo in 200 scuole medie e si dibatte se non vietarne del tutto l'uso prima dei 13 anni

Ha superato le mille firme in poche ore la petizione su Change.Org per chiedere di vietare l'uso degli smartphone agli Under 14. «Chiediamo al governo italiano di impegnarsi per far si' che nessuno dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze possa possedere uno smartphone personale prima dei 14 anni e che non si possa avere un profilo sui social media prima dei 16» si legge nell'appello di cui sono primi firmatari il pedagogista Daniele Novara e lo psicoterapeuta Alberto Pellai. La petizione chiede un'ulteriore stretta sull'uso dei cellulari per i giovanissimi dopo il divieto di averli in classe fino alla terza media deciso dal governo. È stata sottoscritta da intellettuali e personalita' del mondo dello spettacolo, da Paola Cortellesi a Piefrancesco Favino, da e Alba Rohrwacher a Luca Zingaretti.

Giusto vietare, c'è un'emergenza educativa da affrontare

Su milioni di app che si possono scaricare su uno smartphone quelle che potrebbero essere davvero utili per un ragazzo o una ragazza di 12-13 anni sono poche: l’antichissima app “telefono”, buona per parlare con gli amici e ottima per rassicurare gli ansiosi genitori contemporanei (con telegrafiche telefonate tipo «vengo a casa», «va bene, state tranquilli»); la coeva app “sms”, per recapitare ancora più rapidamente i medesimi messaggi a mamma e papà; e la moderna Maps di Google, per orientarsi in città negli anni in cui ci si guadagna la prima fetta di vera autonomia. Poi, naturalmente, Spotify o qualcosa del genere per ascoltare la musica. Di tutto il resto – a partire da TikTok e Instagram – che cosa dovrebbe farsene un preadolescente?

Sappiamo a che cosa serve la stragrande maggioranza delle app più popolari: principalmente a catturare l’attenzione dell’utente per rivenderla a investitori pubblicitari, raccogliendo una straordinaria quantità di preziosi dati personali che fanno gola a chi deve venderci qualcosa. E dovremmo ormai sapere – perché sono anni che ne parliamo – che in tutto il mondo una grande quantità di psicologi, pedagogisti e insegnanti sono preoccupatissimi per gli effetti che l’uso quotidiano di uno smartphone prima dei 14-15 anni può avere sullo sviluppo di un essere umano. Fa danni a livello cerebrale rendendo più complicate concentrazione e comprensione, ostacola la sana socializzazione con i coetanei, crea una dipendenza tecnologica da cui è difficile liberarsi. Non occorre avere studiato psicologia dello sviluppo per capire poi che aprire un account social per mettersi in vetrina e ricevere i giudizi del mondo sul proprio corpo e su sé stessi proprio negli anni in cui abbiamo più bisogno di capire chi siamo è incredibilmente pericoloso.

Queste cose le sappiamo già, o almeno dovremmo saperle perché ne parliamo da anni. Eppure, siamo arrivati a questo punto: quello in cui alcuni dei migliori psicologi e pedagogisti italiani, con Daniele Novara e Alberto Pellai primi firmatari, sentono la necessità pubblicare una petizione su change.org per chiedere di vietare gli smartphone a chi ha meno di 14 anni e i social a chi ne ha meno di 16. Invocano l’intervento urgente dello Stato in quella che dovrebbe essere una decisione che spetta alla famiglia. Ma forse ormai davvero serve una legge, perché come società non possiamo permetterci il rimbambimento e la depressione da smartphone di intere generazioni e perché troppi genitori questo “no” da soli non sono capaci di dirlo: alcuni perché si rassegnano alla realtà del “tanto ce l’hanno tutti”, altri perché sono sinceramente convinti che dotare i figli di uno smartphone migliorerà la loro vita. Ne restano convinti anche quando li vedono fissare e far scorrere uno schermo per ore.

Proviamo a girare la domanda, per una volta: a che età vogliamo dare i nostri figli agli smartphone? L’inizio della scuola può essere l’occasione di ragionarci insieme dentro le temute chat tra i genitori delle nuove classi che si formano. Il divieto, se mai passerà, non arriverà domani. Possiamo decidere insieme che gli smartphone possono aspettare ancora un po’. Chi non resiste può fare accettare ai figli quelli che adesso chiamano dumbphone: telefonini vecchia maniera, che telefonano, mandano messaggi e basta. Hanno tutto quello che può servire davvero. Lasciano diventare smart i ragazzini prima dei loro apparecchi.

Pietro Saccò

Meglio educare, col “no” si costruiscono muri inutili

La premessa è d’obbligo: non c’è nulla da eccepire nelle ragioni che hanno portato i più rinomati tra i nostri pedagogisti (alcuni dei quali non a caso scrivono da anni di questo tema sulle nostre pagine) a lanciare al governo italiano l’appello di vietare ai ragazzi e alle ragazze sotto i 14 anni di poter acquistare uno smartphone e a quelli sotto i 16 anni di avere un profilo social. I danni effettivi che l’uso smodato dei cellulari e la permanenza eccessiva online hanno sul cervello dei minori sono dimostrati, punto. Le nostre autorità sanitarie, così come sta avvenendo in altri Paesi attorno a noi, dovrebbero prenderli sul serio, approfondirli e offrire strumenti oggettivi di valutazione alla politica.

Ma la premessa si infrange contro la realtà: di casa, di scuola, di palestre e oratori, di aziende e uffici, dell’essere genitori di figli adolescenti, dell’essere adolescenti cresciuti nel mondo degli smartphone e dei social e del post-Covid (il Covid li ha immersi nella Dad e nelle videocall, la loro vita è andata avanti soltanto perché appesa al filo di quella rete e di quegli smartphone che pure fanno male, esattamente come la nostra). Il mondo in cui viviamo è fatto a misura di smartphone e tablet, plasmato dai e sui social fino alle radici del suo linguaggio, stravolto dall’uso sempre più massiccio delle tecnologia e dell’intelligenza artificiale: ci sono eccessi, ci sono storture, può non piacerci, possiamo tenercene lontani, ma in questo mondo viviamo, non ce n’è un altro, e in questo mondo i nostri figli crescono e saranno scaraventati dopo i 14 o i 16 anni qualsiasi cosa accada prima. È con questa realtà che la comunità educante deve fare i conti, e deve avere il coraggio di farli una volta per tutte pagando lo scotto di una sfida epocale: continuare ad educare.

Il “no”, si dirà, fa parte dell’educazione: i divieti servono, i paletti tracciano la strada. Ma i divieti e i paletti sono anche tanto comodi: si piantano una volta per tutte, non richiedono sforzi aggiuntivi, chi li rispetta d’ora in poi sarà “buono”, chi li infrange “cattivo”, di qui la verità, di là gli sbagli. In mezzo – nel mezzo del cammino avventuroso e cangiante che è crescere – nessuna terza via. «Non mi fa paura che mia figlia guardi un video inappropriato su Tik Tok – osservava una mamma durante un’assemblea di classe qualche tempo fa –. Mi fa paura che lo faccia senza di me, che lo faccia senza che io sia lì con lei a spiegarle quello che sta guardando». L’educazione richiede innanzitutto tempo, sguardo, ascolto, confronto. Poi, regole. Infine tra le regole, se necessario, divieti.

Sugli smartphone e i social c’è chi in questi anni ha scelto la strada dello “stare con quello che c’è”, affrontando l’impresa di educare all’uso di questi strumenti attraverso percorsi consapevoli e responsabilizzati che comincino a scuola: è il caso dei “patti digitali” e dei famosi “patentini”, esperienze di avvicinamento graduale alle tecnologie legate a ore di formazione (il Friuli Venezia Giulia in questo è un modello). Il principio? Non vietare, ma vincolare l’uso del cellulare e l’accesso ai social a percorsi di formazione. Per affrontarli occorrono tempo, risorse, professionisti e quell’alleanza tra istituzioni, scuola e genitori senza cui l’educazione è destinata ad arrendersi ai divieti soltanto. Non arrendiamoci.
Viviana Daloiso