Digitale. Videogiochi, oltre 330mila under 20 rischiano la dipendenza
Hanno trascurato gli amici o perso ore di sonno, pur di rimanere collegati online a videogiocare, dicono di sentirsi di cattivo umore, se non possono connettersi a internet. Quasi 330mila studenti (14%) mostrano queste fragilità nell’utilizzo del web e dei social con percentuali più elevate tra le ragazze, vale a dire il 18%, mentre i ragazzi sono il 9%. «Anche se il gaming che si configura come una vera e propria dipendenza, perché considerato il comportamento più uncinante riguarda soprattutto i ragazzi» ha spiegato Leopoldo Grosso, psicologo, psicoterapeuta e presidente onorario del Gruppo Abele fondato da don Luigi Ciotti. L’età più “a rischio» è rappresentata dai 15 anni, mentre si passa dal 18% all’11% tra i 19enni. Sono alcuni dei dati emersi nell’ambito del Cybersecurity Day – Internet Festival 2023 di Pisa, elaborati dal Consiglio Nazionale delle Ricerche – Istituto di Fisiologia Clinica. Contenuti nella relazione presentata a luglio al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia i dati raccontano delle nuove dipendenze causate da Internet e dal gaming anche attraverso alcune installazioni di data visualization, pensate per gli studenti ma visibili da chiunque fino a domenica 8 ottobre all'Internet festival a Pisa, dove si incontrano esperti di robotica, tecnologia e innovazione, umanisti, rappresentanti delle istituzioni, artisti e personaggi del mondo della cultura e dell’arte.
Tra gli studenti con un profilo di utilizzo di Internet “a rischio” c’è una quota maggiore di altri comportamenti potenzialmente pericolosi, come l’assunzione di sostanze psicoattive o come l’avere un profilo di gioco d’azzardo “problematico”. Al contrario, essere impegnati in attività sportive e l’amore per la lettura sembrano avere una valenza “protettiva” nello sviluppo di comportamenti di gaming problematico.
Dal cyberbullismo alla dipendenza da social al gaming: i comportamenti a rischio legati all’utilizzo di internet hanno forme e modalità diverse. «Quando il tempo speso a giocare diventa eccessivo, il gaming può risultare pericoloso, influendo negativamente sulle relazioni sociali o sul rendimento scolastico» ha sottolineato lo psicoterapeuta Grosso. Il gaming è molto più diffuso fra gli adolescenti maschi (86%) rispetto al 49% delle ragazze: nel 2022 il 7% e il 13% hanno videogiocato più di 4 ore al giorno nei giorni scolastici ed extrascolastici, con percentuali triple tra i ragazzi (9% e 17%). Il 16% degli studenti videogiocatori ha giocato dalle 2 alle 4 ore senza interruzioni nei giorni di scuola e il 33% nei giorni extrascolastici, mentre rispettivamente il 5,8% e il 14% hanno giocato per sessioni di oltre 4 ore. Nei dati elaborati del CNR si legge che quasi 400mila studenti (16%) presentano un profilo di gioco “a rischio”, con percentuali più che triple tra gli adolescenti (24%). Hanno tra i 15 e i 19 anni, trascorrono troppo tempo a giocare, diventano di cattivo umore se impossibilitati a giocare e ricevono rimproveri da parte dei genitori per il tempo passato davanti alle console.
Ma internet è il vero problema sempre? «Sento spesso i genitori dire mio figlio sta rintanato a casa collegato a internet: in quei casi, dobbiamo riuscire distinguere quale sia la causa dell’isolamento. Il Covid-19 in alcuni casi ha fatto sperimentare come positiva l’esperienza di non avere contatti sociali, e in questo senso è stato un detonatore» ha spiegato Grosso che ha messo la luce su quell’1,6% di studenti intervistati che si è autodefinito Hikikomori, ossia una persona che evita il coinvolgimento sociale, non frequenta praticamente più alcun amico e passa tantissimo tempo davanti a un monitor, isolato nella propria camera. Si stima che in Italia siano circa 38mila: «Il 32% non lascia mai la propria stanza se non per andare a scuola, un quinto esce al massimo una volta alla settimana per uscire con gli amici o praticare attività sportive» ha aggiunto il presidente onorario del Gruppo Abele. «Quando ci troviamo di fronte a un ritiro sociale volontario la difficoltà va ricercata nella relazione con i propri compagni di scuola, nel senso di emarginazione e discriminazione che il ragazzo prova. Ed è causa di una grandissima sofferenza» ha spiegato lo psicologo, che ha sottolineato che «invece, internet, in questi casi, è una risorsa, una finestra sul mondo e non la causa diretta della sofferenza.
La Rete diventa lo strumento per una socializzazione compensativa che rende più lieve questo ritiro sociale». Quasi 55mila studenti (2,2%) si sono volontariamente isolati per un periodo di tempo superiore ai 6 mesi, ascoltando la musica (58%), stando sui social network (47%) e giocando online (44%). Il 30% degli studenti ritirati per oltre 6 mesi non ha mantenuto alcun contatto con amici o conoscenti. Tra questi, il 49% ha spiegato di sentirsi escluso o non capito dagli altri, il 44% di non aver amici stretti e il 42% di essere solo. Gli studenti isolati hanno indicato di preferire attività solitarie (33%), di non avere interesse a socializzare (31%) o di provare ansia nel socializzare con altre persone (29%).
In questi casi «la possibilità anche nel videogioco di confrontarsi con compagni che vivono dall’altra parte del mondo può rendere meno claustrofobico questo ritiro sociale volontario». Viene da chiedersi da adulti cosa si possa fare per aiutare i ragazzi e le ragazze in queste condizioni, considerando che un terzo degli Hikikomori ha raccontato che i propri genitori hanno accettato la cosa senza porsi domande. Il 17% che non l’hanno saputo, e solo l’11% che si sono preoccupati e hanno chiamato il medico o la scuola. «Dietro alle assenze da scuola possono esserci situazioni di sofferenza scolastica, episodi di bullismo, non denunciati né a scuola né ai propri genitori per paura di essere derisi o trattati male» ha denunciato ancora Grosso che è assolutamente convinto del ruolo centrale della scuola di fronte alle assenze prolungate. Un quarto degli studenti socialmente isolati hanno raccontato che i propri insegnanti non si sono preoccupati del periodo di ritiro. E solo nel 18% dei casi è stato raccontato di insegnanti preoccupati che hanno contattato i genitori.
Inoltre, la scuola «laddove vengano presentate delle certificazioni per fobia scolare, deve comunque garantire il suo diritto allo studio, con strategie che preservino il ragazzo da contatti con la classe che giudica e deride». Secondo lo psicoterapeuta «è importante che i genitori abbandonino l’atteggiamento morale e moralistico che colpevolizza il ragazzo che non va a scuola. Serve comprensione per capire dove e come aiutarlo, permettendogli di escludere gli ambiti dove patisce la competizione e il rapporto con i pari, per proporgli con il sostegno anche di uno psicoterapeuta situazioni sociali che sia in grado di gestire, magari proprio con l’aiuto degli amici più cari».