Il rischio Far West. La difesa «sempre» legittima. I magistrati: legge pericolosa
L’Assemblea del Senato ha approvato il provvedimento sulla legittima difesa in terza e definitiva lettura, con 201 voti favorevoli, 38 contrari e 6 astenuti.
Alla fine, fra l’esultanza della Lega e la forte preoccupazione di magistrati e avvocati, la riforma dell’istituto penale della legittima difesa è diventata legge. Ieri, infatti, l’Assemblea del Senato ha approvato il provvedimento in terza e definitiva lettura, con 201 voti favorevoli, 38 contrari e 6 astenuti. Il risultato della votazione è stato salutato dagli applausi dei senatori della Lega e di una parte di quelli di M5s. Ma sui banchi del governo, a fronte della presenza del vicepremier e titolare dell’Interno Matteo Salvini e dei ministri per la Pubblica amministrazione e per l’Agricoltura, Giulia Bongiorno e Gian Marco Centinaio, si è notata l’assenza dei rappresentanti di governo pentastellati.
Nel voto, il Carroccio incassa pure la sponda di Forza Italia e Fratelli d’Italia, con Giorgia Meloni rammaricata: «L’abbiamo votata, ma è un’occasione persa, per noi la difesa in casa propria è sempre legittima». Invece Matteo Salvini non nasconde la soddisfazione: «È un giorno bellissimo non per la Lega, ma per gli italiani – sostiene –. Dopo anni di chiacchiere e polemiche, è stato sancito il sacrosanto diritto alla legittima difesa per chi viene aggredito a casa sua, nel suo bar, nel suo ristorante». A chi avanza dubbi o critiche, il vicepremier replica: «Non si distribuiscono armi e non si legittima il Far West, ma si sta con i cittadini perbene». Non pago, il leader leghista apre un altro fronte: «Sarà legge dello Stato, entro la primavera, anche l’eliminazione del rito abbreviato e dello sconto di pena per alcuni reati particolarmente gravi».
Sul fronte pentastellato, l’esultanza è tiepida. In Aula il premier Giuseppe Conte non si affaccia, il vicepremier Luigi Di Maio è in viaggio negli Usa («Siamo stati leali al contratto» dice, laconico) e non c’è neppure il Guardasigilli Alfonso Bonafede, che però affida a Facebook una valutazione: chi si difende legittimamente eviterà di «attraversare un calvario giudiziario, era un punto del contratto di governo e l’abbiamo realizzato». Dai banchi dell’opposizione, Franco Mirabelli e altri senatori dem criticano il provvedimento perché intessuto di «propaganda». Per il segretario del Pd Nicola Zingaretti è «un atto irresponsabile, forse per fare un favore a qualche lobby». Alla pattuglia del Pd e a quella di Leu, nel voto, si è aggiunto l’ex M5s Gregorio De Falco. Fra i cinquestelle, a parte gli assenti "giustificati" (9, fra cui i ministri Barbara Lezzi e Danilo Toninelli), mezza dozzina di senatori (fra cui le dissidenti Elena Fattori e Paola Nugnes) non ha partecipato al voto.
Il cardine del provvedimento risiede nella modifica all’articolo 52 del Codice penale: si considera «sempre» sussistente il rapporto di proporzionalità tra difesa e offesa. E viene esclusa la punibilità di chi, in condizioni di minorata difesa o di grave turbamento derivante dal pericolo, commette il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità. Ma secondo l’Associazione nazionale forense, «la riforma, non immune da profili di incostituzionalità, riduce solo in apparenza l’ambito dell’interpretazione del singolo magistrato». E di dubbi di costituzionalità parla pure il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Francesco Minisci: la norma «prevede pericolosi automatismi e restringe gli spazi di valutazione dei magistrati, tutti saranno meno garantiti».
Critico pure il presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza: è un provvedimento «inutile, perché la valutazione e la discrezionalità del giudice è ineliminabile», e «pericoloso» perché «diffonde l’idea che ci sia un’impunità, che non potrà mai esserci». Per di più, fa notare Caiazza, la riforma «non risponde ad alcuna emergenza, se non virtuale e costruita per avere consenso» visto che «sono 2 o 3 l’anno in Italia i processi di questo tipo». Interpellato dai cronisti, il presidente della Camera Roberto Fico taglia corto: «Spetta alla Consulta valutare la costituzionalità delle leggi, non a me».