Governo Conte bis. Di Maio alla sfida della Farnesina
Di Maio giura come ministro degli Esteri (Ansa)
Se c’è qualcosa che ha rischiato di finire fuori rotta durante l’esperienza del precedente governo gialloverde questa è stata la politica estera. La sua usurpazione da parte di Matteo Salvini – con i danni procurati alla reputazione, agli interessi e alla sicurezza dell’Italia – fu resa più agevole dal fatto che il titolare di quel dicastero, Moavero Milanesi, era politicamente debole rispetto all’ex ministro dell’Interno. Il fatto che ora la poltrona della Farnesina sia occupata dal capo politico del Movimento 5 Stelle pone oggi gli Esteri in una posizione di forza rispetto agli altri dicasteri.
Perché se è vero che l’incarico di ministro degli Esteri è per prestigio secondo solo alla premiership, è altrettanto vero che il suo ruolo effettivo dipende dal peso politico di chi lo incarna. Nello scorso decennio Massimo D’Alema si dimostrò un abile ministro degli Esteri, capace in breve tempo di colmare quelle che potevano essere le possibili debolezze curriculari. Ma fin dal primo giorno investì la Farnesina del suo valore sul borsino della politica.
È doveroso sottolineare la giovane età del neoministro, 33 anni, la sua sostanziale mancanza di esperienze internazionali, l’assenza di una formazione accademica. Non va neppure sottaciuto che Di Maio fu almeno corresponsabile del richiamo a Parigi dell’ambasciatore di Francia per il maldestro e inappropriato incontro oltralpe con alcuni dei meno presentabili esponenti dei 'gilet gialli'. Ugualmente, non andrebbe dimenticato che a quella grave decisione l’Eliseo arrivò anche per le volgari insinuazioni sessiste rivolte al presidente Macron dal capo della Lega.
Tutto ciò premesso, occorrerebbe rammentare come la macchina della Farnesina rappresenti una garanzia di 'auxilium et consilium' sempre a disposizione per i politici che temporaneamente rivestono l’incarico governativo. Così come andrebbe riconosciuto che la spinta verso pericolose derive del posizionamento internazionale dell’Italia, l’isolamento che negli scorsi 14 mesi era stato autoimposto al Paese, le spericolate e indecorose amicizie, i rapporti non limpidi con governi di Paesi tanto grandi quanto minacciosi, il disallineamento rispetto agli alleati e alle istituzioni atlantiche ed europee erano il frutto della spinta sovranista che oggi sta all’opposizione.
Se certamente è al presidente del Consiglio Conte che va ascritto il merito di aver traghettato il M5S nell’alleanza europarlamentare che ha designato Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea, è altrettanto indiscutibile che è stata la leadership politica del Movimento a dimostrare capacità di evoluzione. Oggi chi siede alla Farnesina, il suo capo politico ha di fronte a sé la grande opportunità di dimostrare che la disposizione ad ascoltare, apprendere e comprendere non toglie nulla alla propria leadership. Semmai è vero il contrario, tanto più in un mondo come quello odierno, in cui tutto sembra vorticosamente cambiare.
Quello che è certo è che Di Maio dovrà affrontare dossier pesantissimi: dalle migrazioni alla nuova architettura del sistema internazionale, dal Medioriente ai rapporti con Cina e Russia, dalle sfide ambientali globali alle relazioni transatlantiche e intraeuropee, dalla Brexit agli effetti della guerra dei dazi. 'Saprà di non sapere' abbastanza? È probabile. Ma prima di sottovalutarlo meglio riavvolgere il film della crisi di governo, per constatare come il 'cadavere politico' dei giorni del Papeete, sia stato capace di risorgere in un mese, e di riportare i pifferai magici allo stato di pifferi: che notoriamente scesero dalle montagne per suonare e vennero suonati.