Attualità

LE INCHIESTE DI AVVENIRE. Detenuti allo stremo, sale il rischio rivolta

Nello Scavo giovedì 28 giugno 2012
Manca solo l’innesco. L’esplosivo c’è già. Si chiama “sovraffollamento”. Quanti sono i tentativi di rivolta nelle carceri non è dato saperlo. Ma per scongiurare il peggio non basterà derubricare gli scioperi della fame a «protesta generica contro il vitto», come sta accadendo tra i vetusti raggi di San Vittore, né archiviare le brutalità come «scontri interni tra detenuti». Non è così che si terrà a bada ancora a lungo il disagio che diventa rabbia, e la rabbia che tracima in violenza. Appena dieci giorni fa a Saluzzo (Cuneo) per sedare una «rissa tra detenuti» marocchini cinque agenti di polizia penitenziaria sono rimasti contusi, con prognosi tra i tre e i venti giorni. «In quella struttura – denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo degli agenti penitenziari – ci sono 70 agenti in meno rispetto agli organici e un pesante sovraffollamento: 390 detenuti, di cui il 50% stranieri, contro i 260 posti regolamentari». La domanda di Capece non è retorica: «Cos’altro deve accadere perché si intervenga?». Qualche settimana prima, scene analoghe erano capitate a Foggia (3 agenti contusi), a Rebibbia con due maxirisse, a Lucca (sei agenti al Pronto soccorso). La fuga più facile, per molti, è quella dell’autolesionismo, fino al suicidio: l’anno scorso gli agenti hanno salvato 1.137 detenuti. Nonostante questo, di galera si muore. Nel primo trimestre di quest’anno 17 persone si sono tolte la vita. Nel 2011, segnala l’associazione Antigone, ci sono stati 186 decessi di cui 66 per suicidio, 23 per motivi da accertare, 96 per cause naturali e 1 per omicidio. Le “voci di dentro” a fatica oltrepassano le mura perimetrali delle case di detenzione. Così è dai reclusi “eccellenti” che trapelano più facilmente verità incresciose. Antonio Simone, ex assessore regionale lombardo, è agli arresti per l’inchiesta sulla sparizione di 70milioni di euro dai bilanci della fondazione sanitaria Maugeri. Dalla sua cella di San Vittore trasmette alla redazione del sito “Tempi.it” una sorta di diario dall’inferno: «Siamo 1.600 detenuti, di cui l’80 per cento in attesa di giudizio o, come me, in carcerazione preventiva». L’illustre indagato parla di «ordinaria follia». Come un diverbio, di cui neanche “radio carcere” conosce l’esatta origine, degenerato in «violento pestaggio: dieci albanesi contro dieci tunisini. Un tunisino è finito in ospedale con diverse spaccature, un secondo tunisino è stato ricoverato al Pronto soccorso interno, un terzo, che era intervenuto per dividere i duellanti, ha preso qualche cazzotto ed è stato accompagnato in cella». Qualcosa di drammatico dovrà ancora accadere, perché quella stessa notte l’immigrato che provò a riportare la calma «si è evirato un testicolo e lo ha messo in un bicchiere. A disposizione». Non finirà qui. La sproporzione tra posti letto e numero degli arrestati è la principale causa del disagio. Al 30 maggio si contavano 66.487 "ospiti" su una capienza di 45.558. Ci sono galere nelle quali si vive «ammassati in appena due metri quadrati a testa», ha raccontato l’ex magistrato e deputato del Pdl Alfonso Papa, uno dei principali accusati nell’inchiesta sulla P4, per cui ha scontato centouno giorni di carcere a Poggioreale (Napoli). Centimetri di inciviltà, «al di sotto della soglia minima fissata dalla legge per i maiali da allevamento e – osservò Papa con amara ironia – un po’ di più degli spazi cimiteriali». Che la politica si accorga di quanto spaventosa sia la reclusione solo quando esponenti dei partiti finiscano dietro le sbarre, la dice lunga sulla sensibilità che in questi anni è stata prestata al "pianeta carcere". Ora discarica sociale, ora arma di scontro elettorale. Qualche giorno dopo i primi scontri raccontati da Simone, a San Vittore si replica. Durante l’ora d’aria (i fatti avvengono in una data imprecisata di metà maggio) «si chiamano da una parte i tunisini e i marocchini, dall’altra gli albanesi. Un minuto e scoppia l’inferno. Tutti scappano, non si sa dove. L’evirato tunisino è al centro del pestaggio, cade. Escono punteruoli, cinghie con sassi, lui è una maschera di sangue, così come grondano sangue le mani di chi ha strumenti di offesa». Non è un caso se Rosario Tortorella, segretario generale del Sidipe, il sindacato che raduna la quasi totalità dei direttori della carceri, invoca «un sistema penitenziario che sia coerente con i principi internazionali e costituzionali di rispetto della dignità della persona detenuta e della finalità rieducativa della pena». Valori calpestati, se è vero che «i dirigenti penitenziari – denuncia l’ennesima nota del Sidipe – vivono quotidianamente e con sofferenza l’impossibilità di garantire quei diritti che l’ordinamento proclama».(1 - continua)