Don Raffaele Grimaldi. Detenuti in Comunità? Proviamo
Scontare la pena in una comunità terapeutica “chiusa e protetta” oppure in un centro di accoglienza specializzato e proseguire qui, anziché in carcere, il proprio percorso rieducativo. La proposta, avanzata nei giorni scorsi dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Dalmastro è ancora allo studio e riguarderebbe, seppure «entro certi limiti», i detenuti tossicodipendenti che rappresentano il 30% delle oltre 56mila persone rinchiuse attualmente nei 192 istituti di pena italiani. Potrebbe essere, dunque, una risposta efficace al sovraffollamento che è causa di forti tensioni, disagi e dei numerosi suicidi (sono stati 84 nel 2022) per tutti quelli che sono costretti a vivere, ma anche a lavorare, tra le mura di una prigione. « È un’idea valida ma va vista meglio e, soprattutto, va collaudata: sono anni che si parla di sovraffollamento delle carceri e non si riesce a trovare soluzioni adeguate » sostiene don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei 250 cappellani penitenziari impegnati a portare la speranza tra chi invece non ce l’ha più perché ha perso la libertà. Una missione che il sacerdote campano ha cominciato a svolgere nel 1993, quando ha messo piede per la prima volta in una Casa di reclusione, quella di Secondigliano, in provincia di Napoli, per svolgere il suo apostolato.
Don Raffaele Grimaldi - .
Lei quindi è d’accordo con la proposta di far uscire dal carcere chi ha problemi di droga per accoglierlo in centri specializzati nell’assistenza e nella cura?
Proposte del genere vanno senz’altro incoraggiate. Sarebbe un’azione forte e importante e potrebbe consentire agli istituti penitenziari di respirare meglio. Ma ognuno ha la sua opinione e il governo fa la sua parte. Però, chi dovrà decide di accogliere detenuti tossicodipendenti ha bisogno di dialogo e le Comunità che vogliono essere disponibili devono essere messe nelle condizioni di operare bene. Insomma, serve un dialogo con il Terzo Settore. Ma non va dimenticato che la maggior parte di chi sta in carcere è povera gente, perché non ci sono solo i tossicodipendenti ma anche gli alcolisti, i migranti e i senza dimora, per esempio. E queste fasce deboli vanno sempre accettate e accolte anche dietro le sbarre. Però è difficile accedere e svolgere la propria missione in questi luoghi di sofferenza.
Nei primi due mesi e mezzo del 2023 i detenuti che si sono tolti la vita sono stati dieci. Erano stati quindici nello stesso periodo dell’anno scorso. È cambiato qualcosa, secondo lei, dopo il tragico record di morti del 2022?
Si è riscontrata una maggiore attenzione alle fasce più critiche, cioè ai più fragili psicologicamente. Ma è pur vero che un suicidio accade all’improvviso e non è certo programmabile. Il carcere rimane comunque un luogo dove si soffre la solitudine, l’emarginazione e l’abbandono e questo rappresenta sempre un terreno fertile per i suicidi.
Avere rapporti più stretti con le famiglie potrebbe alleviare la condizione di solitudine. Bastano i sei colloqui al mese previsti dalla legge?
Quando si è lontani dai propri cari non si vive serenamente. Poter abbracciare moglie, figli, fratelli, genitori è un grande aiuto psicologico per un detenuto. Un’ipotesi potrebbe essere quella di favorire trasferimenti dai penitenziari del Nord a quelli del Sud, ma non è cosa facile e dipende dai reati commessi, ci sono persone sottoposte a stretta sorveglianza che non è possibile spostare. Ma con la pandemia da Covid si è sperimentato l’uso delle nuove tecnologie, delle videochiamate. Aiutano molto....
Che significa, secondo la sua esperienza, essere il “padre spirituale” di un carcerato?
Mai come in questo tempo, grazie al magistero di Papa Francesco improntato alla misericordia, la figura del cappellano penitenziario ha avuto tanta risonanza. Il nostro è un lavoro di sostegno anche verso la stessa struttura carceraria, spesso in difficoltà. Siamo un punto di riferimento e di incontro e dialogo per tutti, e non solo per i cattolici o i cristiani. Sono 20mila i detenuti stranieri, una presenza che ha sconvolto nel tempo la nostra pastorale che è sempre più basata su un profondo ecumenismo.
Ma per voi cappellani c’è differenza tra un detenuto sottoposto al 41bis, quindi con gravi reati a cui deve rispondere con un regime di carcere duro, e un altro che magari deve scontare pochi mesi o è in attesa di giudizio?
Non c’è proprio differenza da un punto di vista umano. Come Chiesa siamo vicini a tutti, senza distinzioni. Non distinguiamo i carcerati in base al reato. “Nessun uomo è il suo errore” diceva don Oreste Benzi. Ci interessa invece la riabilitazione, la rinascita di ciascuno. Ridare speranza a tutti.
Stare vicini ai detenuti, parlare con loro, sostenerli nella sofferenza, amministrare i sacramenti a chi li chiede, dire Messa. E poi? Finisce lì il pur delicato e impegnativo compito di un cappellano?
Certo che no. Non bisogna dimenticare che aldilà della pastorale all’interno della struttura molti di noi aiutano e collaborano con le Comunità di reinserimento che operano all’esterno, favoriscono l’integrazione sociale, accolgono i volontari, mantengono i contatti e sostengono le famiglie.