Fine vita. Il capogruppo Pd Delrio: tuteleremo la vita fragile
Fa fatica a entrare nel tema e lo fa con «sobrietà. C’è pudore e difficoltà a parlare della morte di altri». Graziano Delrio, capogruppo del Pd alla Camera, riflette sulla sentenza della Consulta, «che – sottolinea – parla di casi estremi. Ma non deve farci dimenticare che il cuore del problema sta a monte: in che modo viene potenziata e aiutata la relazione di cura della persona, che non ha scelto di ammalarsi, ma è costretta nella malattia. Solo affrontando con uno sforzo comune questa prima parte si può non vedere come una sconfitta una soluzione per casi limitatissimi, in cui l’aiuto al suicidio non è più un fatto medico, un aiuto di Stato, ma l’azione di chi ha accompagnato la persona».
Lo Stato si è ormai arreso alla cultura della morte? No, non direi. Penso che si sia andato in una direzione di ricerca di interpretazione dell’aiuto al suicidio, in determinate condizioni, come una cosa penalmente non perseguibile. Si è cercato con tormento, contestualmente, anche di porre le condizioni per questa depenalizzazione. Ribadendo l’indispensabilità dell’intervento del legislatore mi pare che la Corte voglia dire che è molto preoccupata che non vi siano condizioni precise e interventi legislativi puntuali.
Il Parlamento finora non era riuscito a fare una legge. Seguendo questo quadro, con una discussione che sia più serena di quella dello scorso anno, quando c’era troppa tensione tra i due partiti che governavano, si può cercare di fare un lavoro con tutto il Parlamento.
Si definiranno i paletti? Sì, certamente il Parlamento dovrà trovare una sintesi che non crei difformità nelle interpretazioni, ma soprattutto che definisca in maniera più precisa i percorsi e stabilisca in maniera molto molto chiara che la priorità è quella della tutela della vita fragile, del rafforzamento delle azioni di cura. Dobbiamo ribadire che quello è l’obiettivo. Poi io da medico sono abbastanza perplesso sul tema della sanitarizzazione del suicidio, perché la relazione di cura è quella che può determinare anche un accompagnamento fino alla morte.
Tra i paletti ci sarà l’obiezione di coscienza per i medici? Mi pare abbastanza chiaro il messaggio dell’Ordine dei medici. È ovvio che la sentenza della Corte non risolve tutto.
La Corte ieri ha precisato che si parla di 'fonti di sofferenze fisiche o psicologiche'. Non è ancora più difficile determinare quelle psicologiche? Diciamo pure che è molto complicato perché quando parli di condizioni psicologiche si apre tutto un ventaglio. Credo che dobbiamo capire che non ci sono ricette, che non ci sono certezze a priori, né nel percorso della vita né nell’accompagnamento alla morte, non ci sono percorsi stabiliti. Però credo che uno sforzo vada comunque fatto nel momento in cui esistono situazioni estreme, ma senza concepire il suicidio come una libertà, come un diritto. Questo oggettivamente è difficile da sostenere.
Lo stanno sostenendo i tanti che parlano di «conquista». Per chi come me ha sensibilità cristiana la libertà non è 'da' – dalla morte, dal dolore, dalla malattia – ma è 'per'. La morte e il dolore sono parte della vita. Dobbiamo certamente combattere contro il dolore.
C’è però la dignità... La dignità è il modo con cui si affronta la morte. Oggi citavo ai miei figli una frase di Savonarola, che mentre viene condotto al patibolo dice a frate Domenico: «Guarda che non puoi scegliere la tua morte, ma puoi solo accettarla e sostenerla con dignità ». Questo è dentro la concezione cristiana ed è un punto di vista che credo si debba tenere presente. C’è tantissima dignità nell’accettare la propria malattia. L’importante è che la persona che sceglie di accettarla non diventi disperato perché viene lasciato solo. Lo Stato ha il dovere di aiutare le famiglie a non lasciare solo il malato, che non deve arrivare a questo punto.