Uno dei presunti assassini di Bruno Caccia, il procuratore capo di Torino ucciso nel 1983, è stato arrestato dalla polizia. È un torinese di 64 anni, di
origini calabresi, attualmente panettiere alla periferia della città. L'inchiesta è stata coordinata dalla procura di Milano.
A tradirlo una lettera anonima, che conteneva la
fotocopia di un articolo del quotidiano La Stampa di 32 anni
fa, con la notizia dell'arresto di Domenico Belfiore per
l'omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia. Sul retro,
gli investigatori hanno scritto il nome Rocco Schirripa, con
l'obiettivo di sondare la reazione su uno dei sospetti che,
all'epoca, era un "soldato" della famiglia Belfiore. Reazioni
che non si sono fatte attendere.
Belfiore, che attualmente si trova agli arresti domiciliari
per motivi di salute, non sapendo di essere intercettato, pur
utilizzando diverse precauzioni ha parlato dell'episodio con suo
cognato, Placido Barresi, che era stato assolto dall'accusa di
omicidio. Barresi ne ha parlato a sua volta con Schirripa che,
interrogandosi su chi avesse inviato la lettera anonima con il
suo nome, aveva anche progettato la fuga.
È stato però arrestato dalla Squadra mobile di Torino in esecuzione di
un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di
Milano Stefania Pepe. La lettera anonima, ha spiegato il
procuratore di Milano facente funzione, Pietro Forno, è stata
quindi una "scommessa investigativa" che ha consentito di
raccogliere elementi a carico di Schirripa, scatenando una
reazione 32 anni dopo il delitto.
Rocco Schirripa, l'uomo arrestato
per l'omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia, avrebbe
dato il "colpo di grazia" al magistrato, vittima di un agguato
mentre portava a passeggio il suo cane il 26 giugno 1983. È la
ricostruzione degli inquirenti della Dda di Milano, che hanno
coordinato le indagini sull'episodio, riaperte anche in seguito
alle richieste dei legali della famiglia di Caccia.
Domenico Belfiore, già condannato all'ergastolo per il
delitto, e il suo "soldato", Rocco Schirripa, secondo quanto è
emerso dalle indagini, avrebbero atteso il magistrato a bordo di
un'auto, appostati vicino alla sua casa. Belfiore, esponente di
spicco della 'ndrangheta in Piemonte, avrebbe sparato a Caccia
dalla vettura, ferendolo. A quel punto, secondo le accuse,
Schirripa sarebbe sceso dall'auto, per finire il procuratore con
un colpo di pistola alla testa.
CRONACA DI UN DELITTO
Erano le undici di sera del 26
giugno 1983. Il magistrato più importante di Torino, il
procuratore capo Bruno Caccia, stava portando a passeggio il
cane quando in via Sommacampagna, ai piedi della collina, due
killer su una 128 lo freddarono a colpi di pistola. Era domenica
e aveva deciso di lasciare a riposo la scorta. Uno dei presunti
componenti di quel commando è stato oggi a arrestato a Torino.
Cinque gradi di giudizio, conclusi con la condanna del boss
Domenico Belfiore, ritenuto il mandante, non sono bastati a far
piena luce sul delitto di un "nitido esempio di dedizione allo
stato, un uomo con la giustizia nel cuore", come i suoi
colleghi, dal procuratore generale Marcello Maddalena al
procuratore capo Giancarlo Caselli, lo hanno ricordato in questi
anni. "Ci sono ancora troppi buchi", diceva l'avvocato Fabio
Repici, il legale della famiglia Caccia, che in occasione del
trentennale della morte avevano chiesto di riaprire il caso.
Erano gli anni di Piombo e per le strade del capoluogo
piemontese scorreva il sangue del terrorismo e della criminalità
organizzata. Ai principali quotidiani nazionali arrivano le
prime rivendicazioni: da principio le Brigate Rosse, poi Prima
Linea e persino in Nar. La matrice, però, si rivelò falsa e si
fece strada l'ipotesi del crimine organizzato.
"Cercheremo di riportare a galla elementi di indagini
trascurate negli anni, ma che potrebbero aggiungere elementi di
verità", diceva l'avvocato Repici. Come il materiale sequestrato
a casa di Rosario Cattafi, avvocato milanese vicino all'estrema
destra e alla mafia in carcere all'Aquila in regime di 41 bis.
Sospetti, ombre, dubbi, che si intrecciano alle indagini portate
avanti in quegli anni da Caccia. "È improbabile che Belfiore
abbia agito da solo e senza movente", insisteva il legale,
ipotizzando il "coinvolgimento in concorso di soggetti calabresi
e catanesi".
Quei dubbi, scritti nero su bianco nella richiesta che il
legale ha presentato alla procura di Milano, hanno portato alla
riapertura del caso. Le indagini, coordinata dal pm Ilda
Boccassini, hanno portato oggi all'arresto di un 64enne di
origini calabresi che lavorava come panettiere in piazza
Campanella, a Torino, nel popolare quartiere Parella. L'arresto
potrebbe far luce su una delle pagine più buie di Torino. E dare
giustizia alla famiglia del magistrato. Trentadue anni dopo.