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L'INTERVISTA. De Rita: «Questa Italia è il Paese della latenza i giovani contestano il potere che non c’è»

Umberto Folena venerdì 16 novembre 2012
«Latenza. Viviamo in una fase di la­tenza ». La sillaba lenta, la parola. Latenza: «È terminato un ciclo, ne comincerà un altro, ma non sappiamo come sarà, né che cosa ci porterà». Giuseppe De Rita, presidente del Censis, descrive così il nostro tempo. È – ma queste sono parole nostre – un’u­nica indistinta distesa di grigio priva di sfuma­ture. Immersi nella quale non è bello né como­do stare. La nostra psiche soffre almeno quan­to il portafoglio. L’altro ieri De Rita era a Roma. 
Che cos’è successo nella capitale, e in altre città italiane? Ancora guerriglia?
Non amo rincorrere le cronache. Non mi ap­passionano. Fiammate, emotive e logistiche. Comunque, a me è sembrata una cosa organiz­zata in modo maldestro. Doveva essere il primo «sciopero europeo» e si è ridotto a piccole sca­ramucce, e per giunta non attorno ai palazzi del potere ma all’isola Tiberina e addirittura alla Si­nagoga, che a Roma non si deve toccare, mai e poi mai, per ciò che è per gli ebrei e ricorda ai romani.
Però i manifestanti c’erano. Che cosa li teneva assieme? Quale idea, o quale disagio? Erano tutti giovani?
Non mi sembra di aver vi­sto professori, neanche qualche reduce sessan­tottino. Sì, la grande massa era costituita da gio­vani, con i cento-duecento in testa a far cagna­ra. La vera cosa sorprendete, per Roma, è stata la «rabbia» degli agenti, di solito ben più tran­quilli e tendenti a sdrammatizzare.
E questo cosa deve indurrci a pensare?
Per gli agenti, che una certa stanchezza, oltre alla carenza di mezzi, si è insinuata anche tra lo­ro. Per i manifestanti, perché il disagio attana­glia soprattutto i padri ma in piazza scendono i figli?
Già, perché?
Una parentesi autobiografica. Ho partecipato a poche manifestazioni, ma la prima la ricorda bene, ero studente: 1953, in piazza per Trieste i­taliana! A noi ventenni sembrava una cosa fon­damentale ma sarebbe dovuta importare assai più agli adulti. Però in corteo c’eravamo noi.
E oggi, nel 2012?
Il disagio primo è quello del cinquantenne che vede allontanarsi la pensione e sfumare i suoi progetti, rischia la disoccupazione, ha ancora i figli a carico e magari qualche parente anziano infermo a cui badare. È il disagio di tre milioni di precari. Un disagio diffuso e adulto. Eppu­re in piazza scendono i giovani, e non credo per tutelare lo zio esodato... Forse intendo­no dimostrare sfiducia e sfogare la rabbia verso un potere che non esiste.
Un potere assente?
Se ci fosse, reazionario e repressivo, proteso a controllare e affamare, si farebbe sentire. Ma non è così. E allora dietro la rabbia, e perfino il disprezzo dei giovani, c’è l’implicito desiderio di provocare il «potere adulto» chiedendogli: ci sei? Sei un padre o no? Loro, i gio­vani, probabilmente lo neghe­rebbero. Ma per me siamo in presenza di un rapporto con­flittuale non con uno Stato che ti sovrasta e reprime, ma che non c’è. Paradossal­mente, vien da pensare che certe reazioni degli agenti vogliano dire, appunto: ec­co qua che ci siamo.
Ma i giovani in piazza rap­presentano solo se stessi o sono la metafora, in certo modo, dell’intera società?
Noi tutti siamo come alcuni di questi ragazzi. Viviamo in una fase di latenza. È termina­to un ciclo e il prossimo deve ancora cominciare. Abbiamo cavalcato 40 anni di sviluppo pieno, ora siamo fermi. Che cosa verrà dopo, quali nuove energie sono in arrivo? Un’al­tra cavalcata di 40 anni? Che cosa, dopo la terza casa e l’ennesimo telefonino? Che cosa, dopo quello che abbiamo conquistato o ci hanno re­galato? Siamo una pagina bianca.
Latenza, sospensione, assenza. Una condizione economica e sociale, ma anche psichica...
Inevitabile, per il cinquantenne che si ritrova in stand-by. Bisognerebbe accorciare questi periodi insulsi di «adolescenza prolungata». Inve­ce li stiamo prolungando. E an­che nei provvedimenti del go­verno Monti c’è ben poco che ci aiuti a venirne fuori. Almeno per ora, purtroppo.