Migranti. Ecco dove sono i minori della Diciotti
Minori stranieri soli impegnati in un'attività formativa insieme ai loro coetanei italiani in un bene confiscato a Cerignola
Dove sono finiti gli immigrati di Nave Diciotti tenuti assurdamente a bordo dieci giorni, 'ostaggi' delle decisioni del ministro Salvini? Gran parte dei 177 richiedenti asilo vennero fatti scendere nel porto di Catania il 26 agosto 2018, tre giorni prima erano scesi 29 minori. Tra di loro Eden e Feven, eritree della regione del Tigrai. Le abbiamo incontrate a Cerignola, dove da due mesi sono ospiti delle Comunità educative 'San Francesco d’Assisi' e 'Santa Chiara', promosse dall’Associazione Volontari Emmanuel (Ave). E questa è una bella storia di accoglienza.
In via Fabriano, in un palazzetto a due piani confiscato a un mafioso, l’Ave gestisce uno Sprar per minori non accompagnati e una casa-famiglia per minori italiani, affidati dal Tribunale; storie di maltrattamenti, deprivazione sociale, conflitti tra genitori. Tante stanzette a due letti, allegre e colorate. Gli appartamenti sono divisi ma, come ci spiega il presidente dell’Ave, Tonino Scardigno, i luoghi di aggregazione sono comuni; minori immigrati e italiani vivono e fanno attività assieme.
E così li abbiamo incontrati la mattina del 1° maggio. Cinque immigrati e dieci italiani, tra i 12 e i 18 anni, oltre a un piccolino di 4 mesi. Sono tutti seduti a terra (il piccolo nel box), attorno a un grande foglio bianco con la scritta "Il nostro posto nel mondo". Giovanni, educatore pedagogista, spiega il significato della giornata: «È festa per tutti, ognuno ha un suo lavoro, ha un posto nel mondo». E i ragazzi sono invitati a disegnare proprio un grande mondo, ognuno con un colore diverso. E poi a fare il disegno di qualcosa in cui si identificano. Così il foglio si riempie di tanti disegni, veri messaggi dei ragazzi. Una casa del proprio Paese, una barca a remi, un libro, una fiaccola, una stella, una staccionata «da superare», un mare ma con tanti uccelli («La speranza»), un biberon – «l’infanzia non avuta».
Le due ragazze eritree disegnano la bandiera e la cartina geografica del loro Paese e una cattedrale (sono ortodosse). Dopo i disegni Giovanni chiede di scrivere delle frasi. E sono davvero bellissime: «Fai della tua vita un sogno e di un sogno una realtà». «Non smettere mai di sognare». «Se punti ad un obiettivo non lasciarlo alle spalle perché con la pazienza e la fatica lo raggiungerai». «Molto meglio sbagliare che aver perso senza provare». Più brevi ma non meno simboliche le parole scritte dai ragazzi immigrati: «Pace e amore sono la vita». «Ama un po’ di più». «Ricordati di andare avanti». «Libertà». «Educazione ». «Condividere». «Bellezza». «Fortuna».
«Sono tutti messaggi positivi, di speranza», commenta l’operatore. Eppure le loro sono storie veramente dure. Come quella di Feven e Eden. Ce la raccontano aiutate da Giovanni, dalla coordinatrice delle comunità, Maria Chiara De Benedictis, e da Angelo Minardi, presidente della cooperativa 'Un sorriso per tutti' che gestisce le attività dei beni confiscati.
Sono partite dall’Eritrea nel 2015. «Prima a piedi, poi in moto, in 3-4 sopra, e su un fuoristrada in trenta». Il Sudan, il deserto. «Senza acqua e cibo sono morte 40 ragazze». Eritree, somale, sudanesi. Infine la Libia, dove sono rimaste un anno, in 800 in una casa. «Maschi e femmine insieme, dormivano per terra e da mangiare ci davano solo pasta». Ma soprattutto «ci picchiavano per avere soldi. Mi facevano telefonare a casa. Dovevo dire 'mamma, manda soldi'. E intanto mi colpivano. Avevo tanta paura». E chi non pagava non sopravviveva: «Dei nostri amici sono stati uccisi, sparati o colpiti con le mazze».
Finalmente, dopo aver pagato 'tanto', la partenza. «Eravamo in 200 su un barcone di legno. Siamo stati cinque giorni in mare. Niente mangiare e bere. Entrava tanta acqua. E il mare era mosso». Poi il salvataggio e la Diciotti. «A noi piccoli hanno messo questo» ci dice Eden facendoci vedere un braccialetto blu di gomma che porta alla caviglia. Un interminabile viaggio verso Catania e la lunga sosta prima di sbarcare. «Non abbiamo capito cosa succedeva, eravamo arrivati ma non ci facevano scendere». E ancora oggi non capiscono: «Temevano di tornare indietro, si sentivano colpevolizzate, erano spaventate», ci spiega Angelo Minardi. E ora? «Qui tutto bene. Al telefono dico a mamma che sono felice», dicono sorridendo. Vanno a scuola di alfabetizzazione e seguono un corso di informatica. E come tutti gli altri ragazzi fanno volontariato nell’oratorio salesiano. Mentre sono in corso le pratiche per il ricongiungimento familiare con un fratello e una sorella in Svezia e in Germania. Sono «il nostro sogno», la meta finale di questo lungo, drammatico e assurdo viaggio.