Mentre inghiottiva i sacchi neri dell’immondizia, l’inceneritore s’è bloccato di colpo: «Allarme radioattività». Qualcuno aveva gettato nel cassonetto un apparecchio gammagrafico, costruito con piombo e uranio impoverito, di solito adoperato per radiografare metanodotti e condutture industriali.Stavolta il segnale di pericolo è scattato a Parona, nel Pavese, la notte del 23 ottobre. I dispositivi di controllo hanno evitato la contaminazione. «Se l’apparecchio fosse stato incenerito – spiegano dall’agenzia regionale per l’ambiente –si sarebbe dispersa radioattività nell’aria». Chi l’aveva nascosto tra i rifiuti urbani voleva risparmiare sugli ingenti costi di smaltimento del materiale radioattivo. E non è la prima volta. Da Trieste alla Calabria ripetutamente nei termovalorizzatori i sensori anti-radiazioni hanno fermato le macchine. Quasi mai, però, la notizia riesce a filtrare.Il business della
munnezza radioattiva è gestito da organizzazioni criminali grazie a coperture nei palazzi che contano. Alle volte volte le scorie finiscono nei porti africani. Altre, direttamente a casa nostra.Un pericolo che insidia anche l’industria siderurgica. Alla Feralpi di Lonato del Garda (Brescia) entrano, ad esempio, 300 camion di rottami al giorno: è solo una piccola parte dei 19 milioni di tonnellate ingurgitate ogni anno dalle acciaierie italiane. Una "fame" sfruttata dalle mafie transnazionali, che gettano bocconi avvelenati nei carichi destinati ai forni.Dopo l’incidente del ’97 all’Alfa Acciai di Brescia, dove la fusione accidentale di cesio 137 provocò danni all’ambiente e allo stabilimento, le fonderie italiane si sono dotate di portali radiometrici, che servono a intercettare gli scarti contaminati. «L’allarme suona almeno quattro volte all’anno», spiega Ercole Tolettini, responsabile ambiente e sicurezza del gruppo Feralpi. Un anno e mezzo fa si trovò di fronte una specie di cubo metallico. Era pesantissimo. «Scoprimmo che si trattava di uranio impoverito, probabilmente un contrappeso usato nell’industria. Proveniva da un fornitore italiano». Nessun canale di approvvigionamento è sicuro: la minaccia può arrivare da qualsiasi parte. «Per ridurre i rischi bisogna selezionare i fornitori: meglio pagare di più i rottami e sentirsi sicuri, piuttosto che fondere materiale di dubbia provenienza», spiega Giuseppe Pasini, presidente della Feralpi e per dieci anni numero uno di Federacciai.Scegliere, però, non è facile. «Nel traffico di rottami radioattivi c’è la mano della criminalità organizzata. E non mi sento di dire che gli scarti contaminati arrivano solo dall’estero. Anzi, in molti casi provengono proprio da raccoglitori italiani. Quando la Beltrame di Vicenza, nel 2004, bruciò un bidone di cesio 137, si scoprì che era stato spedito da Pozzuoli». In quel caso, come in tanti altri, la "sorgente orfana" radioattiva era schermata da un contenitore di piombo, segno inequivocabile della volontà di beffare i controlli. In Spagna, nel 2008, se ne scoprì uno camuffato da rottame già compresso. Anche per questo, i portali all’ingresso delle acciaierie non bastano per tenere lontano lo spettro radioattivo.«Bisogna aumentare i controlli alle frontiere, specialmente nei porti», taglia corto Pasini, che lancia anche un allarme preciso: «Gli strumenti per effettuarli ci sono, ma in molti casi manca il personale per farli funzionare. E così può passare di tutto, anche acciaio contaminato. Bisogna fare attenzione soprattutto alle partite in arrivo dall’Est europeo e dall’estremo Oriente». Se non alzerà la guardia, l’Italia potrebbe trovarsi a fronteggiare scenari inquietanti: «Il progressivo abbandono del programma nucleare da parte di diversi Paesi, Germania inclusa, potrebbe scaricare sul mercato una mole enorme di rottami radioattivi. Bisognerà vigilare sui flussi provenienti dalle zone delle centrali dismesse».Le insidie, però, arrivano da ogni parte. La stessa Feralpi custodisce in un deposito sorvegliato giorno e notte ben sei "sorgenti orfane", tra cui un quadrante di una Jeep militare e uno di un caccia: si tratta di strumenti luminescenti che utilizzano elementi radioattivi.Lo smantellamento dell’arsenale ex sovietico è una delle maggiori fonti di preoccupazione. Lo sanno bene a Sarezzo, ancora nel Bresciano, dove nel 2007 vennero scaricati e fusi rottami provenienti dal Mar Caspio. Quando le scorie arrivarono in un impianto di recupero in Val Seriana, nel Bergamasco, gli allarmi impazzirono: nel tir c’erano tracce di cesio 137. Il camion fu sequestrato e lasciato nello stabilimento per mesi. Le indagini portarono dritte nell’ex Urss. E lì si dovettero fermare. Due le ipotesi: il cesio poteva provenire da pezzi di un velivolo dell’armata rossa, oppure da un sottomarino nucleare smantellato. Un sommergibile, si sospetta, appartenente alla classe Oscar, proprio come il Kursk, affondato il 12 agosto del 200 al largo del Mar di Barents e nel quale perirono per asfissia tutti i 118 uomini dell’equipaggio.Tra i rottami finiscono spesso anche pezzi contaminati di piattaforme petrolifere: le trivelle, scavando in profondità, entrano in contatto con la radioattività naturale del sottosuolo. Se le
sorgenti orfane vengono fuse, si è costretti a stoccare prodotto e scorie contaminati in sarcofaghi di cemento armato. «Cosa ne facciamo di questi
mucchietti?», si domanda Pasini. In Italia, infatti, «non esiste un deposito specifico: nessuno ci dice dove metterli e così dobbiamo tenerceli».