Clima. Da Fikile a Oscar, ecco chi paga con la vita la difesa dell'ambiente
L'ambiente va difeso dagli speculatori prima che diventi impossibile viverci
Ci sono alcuni ricordi di Buyile che nessun bambino dovrebbe mai avere. Ad esempio, quello di un martedì sera di autunno, mentre giocava con il cane nella casa della nonna. Una nonna chiamata 'Mama' – come spesso accade in Africa o in questo caso in Sudafrica – quando una donna diventa un punto di riferimento per la propria comunità: una che si preoccupa un po’ di tutti, proprio come una mamma.
Fikile, il nome vero della nonna di Buyile, non era una testa calda: più semplicemente, una nonna. Preoccupata anche per il futuro del suo nipotino, aveva guidato le proteste contro la Tendele Coal Mine, che con la sua miniera vicino Somkhele aveva messo in ginocchio la comunità locale. Muri delle case distrutti dalle vibrazioni delle perforazioni, polmoni contaminati dalla polvere di carbone emessa dalle lavorazioni minerarie. E così la gente abbandonava le proprie case in cerca di luoghi migliori dove vivere.
Fikile, no. Lei voleva che quella casa, la sua casa, rimanesse quella dove Buyile poteva crescere e – chissà – magari un giorno lontano anche viverci. E che lo stesso potessero fare i suoi amici e concittadini. Quella sera di ottobre dell’anno scorso Fikile Ntshangase, detta Mama, è stata uccisa da tre uomini nel suo soggiorno, mentre il nipotino Buyile giocava in giardino con il cane.
Ma questo ricordo oscuro si riflette in un altro, che è quello che Buyile dovrebbe conservare per sempre, trasformandolo in una storia da raccontare. Fikile era più di una nonna: era un guardiano. Una sentinella della tutela ambientale, un custode delle radici e del futuro dei microsistemi della Terra. Una donna che per proteggere la sua casa e la sua comunità è diventata un’eroina e un esempio di civiltà. Non per cercare gloria o visibilità, ma solo una vita normale nel luogo in cui era nata e cresciuta.
Mama Ntshangase è una dei 227 difensori dell’ambiente uccisi in tutto il mondo nel 2020: sono i dati del rapporto 'Last Line on defence - The industries causing the climate crisis and attacks against land and environmental defenders' dell’organizzazione Global Witness. Dati che registrano l’anno peggiore di sempre.
Ma non è purtroppo una novità: dal 2018 il numero di omicidi dei 'guardiani dell’ambiente' è cresciuto, superando i 200 l’anno nel 2019 fino ai 227 dell’anno scorso (quasi 4 a settimana). Ovvero più del doppio di quanto registrato dal Global Witness rispetto al 2013. Queste vittime sono definite come 'guardiani' degli ecosistemi locali perché uccisi per ragioni legate al disboscamento, alla costruzione di dighe e di miniere, alle estrazioni illegali, all’accaparramento di acqua e terra.
Dove sono stati uccisi? In generale più di tre quarti tra Centro e Sudamerica e soprattutto in Colombia. In questo Paese sono stati ammazzati 400 attivisti ambientali dal 2016, parte degli oltre mille leader comunitari massacrati dall’accordo di pace.
Persone come Yordan Eduardo Güetio. A febbraio scorso, uomini in divisa militare hanno fermato lui e suo padre sulla loro moto alla periferia di Corinto, nel nord del Cauca. Hanno lasciato andare il padre di Yordan, ma hanno ucciso il figlio: aveva meno di 30 anni. La sua colpa era essersi battuto per i diritti del popolo Nasa, un gruppo indigeno del Cauca, nella Colombia occidentale, al quale apparteneva.
Sono indigeni oltre il 70% degli attivisti uccisi quest’anno, proprio perché sono i diritti delle popolazioni ancestrali sull’uso delle risorse delle terre ad essere costantemente attaccati per interessi economici. È il Nicaragua, con 12 uccisioni di guardiani, il Paese più rilevante in termini di omicidi pro-capite rispetto alla globalità della popolazione.
E in Messico questi omicidi sono cresciuti del 70% rispetto all’anno scorso. «Mio figlio, che aveva solo 34 anni, è stato assassinato a Tecate. E non ha potuto difendersi », racconta Norma, la madre di Oscar Eyraud Adams. Suo figlio si batteva per rivendicare l’accesso all’acqua, sempre più scarsa a causa della siccità e preda di grandi imprese che hanno i loro stabilimenti nella Baja California. Dopo gli studi in ingegneria, Oscar aveva scelto di guidare le rivendicazioni sui diritti all’uso della terra per la sua comunità indigena di appartenenza. «Mi diceva: sono indigeno. Sono Kumiai, di Nejí», racconta Norma a proposito del figlio.
«Le grandi compagnie hanno un accesso molto più facile all’acqua. Non è giusto: abbiamo bisogno dell’acqua per coltivare, per sopravvivere. Così, Oscar ci ha incoraggiato: 'Se ci si unisce – diceva – se ci si organizza, non c’è modo per sconfiggerci'». Anche Oscar, come Fikile, è stato ucciso lo scorso autunno.
Giustizia. Un concetto lontano dalle terre difese dai 'guardiani', che sempre più spesso diventano vittime per avere ostacolato eco-crimini ed ecomafie. E difficilmente trovano nelle istituzioni locali il supporto dovuto.
Il 18 marzo del 2019, Sergio Rojas Ortiz è andato all’ufficio del procuratore a Yeri, nel sud-ovest del Costa Rica, per denunciare le minacce ricevute: più tardi quella notte è stato ucciso a colpi di pistola nella sua casa. Ortiz rientra in questo popolo di custodi, eroi loro malgrado. Per più di 40 anni aveva guidato un movimento per reclamare la terra indigena dei Bribri e difendere la sua comunità dai land grabber. Questi ultimi hanno prima bruciato le case di chi protestava, poi alle minacce con armi da fuoco e machete.
Stessa sorte per il brasiliano Paulo Paulino Guajajara, ammazzato in un agguato condotto da almeno cinque taglialegna abusivi in un’imboscata nello stato di Maranhão, nel Nordest del Brasile, che comprende tratti di foresta amazzonica. Paulino è stato ucciso insieme ad un altro membro di Guardians of the Forest, un gruppo che lavora per combattere le bande di taglialegna illegali che invadono le terre indigene.
Entrambi erano membri dei Guajajara: tra il 2000 e il 2018, 42 indigeni di questa tribù sono stati uccisi. Il loro obiettivo è contrastare la deforestazione illegale dell’Amazzonia.
Attenzione, però: queste storie non finiscono sempre male. Anzi, molte battaglie sono state vinte dai 'guardiani'. Nel 2020, a Panama è stato istituito un territorio protetto per gli indigeni Naso, che da anni si battevano per il suo riconoscimento legale.
L’anno scorso il parlamento del Congo ha votato per adottare un disegno di legge che salvaguarda i diritti dei popoli indigeni. In Zambia, le comunità della provincia centrale, costrette a lasciare la loro terra ancestrale sette anni fa, hanno vinto la loro causa all’Alta Corte nazionale. Tutto ciò anche grazie ai semi lasciati dagli eroici difensori dell’ambiente che hanno pagato con la vita il loro impegno.