Giornata mondiale rifugiati. Dal piccolo Alan agli hotspot, la crisi dell'accoglienza
Il piccolo profugo Alan Kurdi senza vita su una spiaggia turca, dopo il naufragio di un'imbarcazione carica di siriani in fuga dalla guerra e dalle persecuzioni. Era il settembre del 2015
Sono passati cinque anni dal 2015, entrato nell’immaginario collettivo come l’anno della “crisi dei rifugiati”. In quell’anno lo Stato islamico avanzava in Iraq. In Siria la guerra civile aveva sradicato milioni di persone. Il 20 aprile 800 persone erano affondate nel Mediterraneo, in acque libiche ma non lontano dall’isola di Lampedusa. Un fatto purtroppo non nuovo, che riattualizzava la memoria del naufragio del 3 ottobre 2013, avvenuto a poche miglia dal porto di Lampedusa, con un bilancio di 368 morti accertati e circa 20 dispersi.
A fine anno le vittime accertate sarebbero state 3.328, più del doppio del 2014 (1.456) e meno che nel 2016 (4.481). Cominceranno a calare nel 2017 (3.552), poi ancora nel 2018 (2.275) e nel 2019 (1.283), a fronte però di una drastica contrazione degli arrivi, a seguito degli accordi con i paesi di transito: Turchia, Niger, Libia. La pericolosità delle traversate infatti è aumentata: la stima è di una vita persa ogni 60 arrivi riusciti, secondo il Dossier Idos 2019.
Le parole di Merkel
Le tragedie delle migrazioni non avvenivano però soltanto in mare. Il 28 agosto 2015 le autorità austriache scoprirono i corpi di 71 persone in un camion frigorifero abbandonato in prossimità del confine ungherese. Si trattava del drammatico epilogo di un ramo del flusso di centinaia di migliaia di persone, che soprattutto dalla Siria cercavano di raggiungere il territorio dell’Unione Europea via terra, attraverso la cosiddetta “rotta balcanica”, passando attraverso Turchia e Grecia. L’Ungheria era il primo Paese dell’Ue che incontravano sul loro cammino, e lì venivano ammassati in campi di detenzione e sostanzialmente abbandonati, per effetto del regolamento di Dublino III.
Il 29 agosto i richiedenti asilo accampati alla stazione Keleti di Budapest decisero di intraprendere una “marcia della speranza” verso il confine austriaco, nel tentativo di raggiungere la Germania. Il 31 agosto la cancelliera Angela Merkel, durante la visita a un centro di accoglienza per rifugiati a Dresda, pronunciò le famose parole «Abbiamo gestito così tanti problemi, gestiremo anche questa situazione»: una dichiarazione che segnò l’inizio di una svolta nella politica tedesca in materia.
Il dramma di Alan
Pochi giorni dopo, il 2 settembre, la foto del piccolo Alan Kurdi annegato durante la traversata dell’Egeo, scosse per un attimo la coscienza dell’opinione pubblica europea. Sull’onda di quel sentimento, il 5 settembre Angela Merkel decise di sospendere l’applicazione del regolamento di Dublino III. Bus e treni furono mandati a raccogliere i profughi in Ungheria, per trasferirli in Germania attraverso l’Austria. Nelle stazioni che attraversavano, i rifugiati erano accolti con applausi, fiori, musica, doni di varia natura. Per la prima volta dal 1989 i confini dell’Ue venivano aperti a masse di non-cittadini, anche se in maniera selettiva: ai siriani arrivati via terra in cerca di asilo. Si formò in quella circostanza un movimento spontaneo di accoglienza che si stima abbia mobilitato tra il 10 e il 20% della popolazione adulta tedesca, per la maggioranza mai prima coinvolta in iniziative analoghe ed estranea ai circuiti della solidarietà organizzata.
L’invasione che non c’è
Secondo i dati Eurostat, i paesi dell’Ue hanno ricevuto complessivamente 1,3 milioni di domande di asilo nel 2015 e 1,2 milioni nel 2016. La Germania ne ha catalizzato la maggior parte. L’incremento rispetto agli anni precedenti è stato sostanzioso, ma anche in quegli anni oltre l’80% dei richiedenti asilo ha continuato ad essere accolto in Paesi in via di sviluppo, principalmente quelli confinanti con le aree di crisi. Solo un’ottica eurocentrica ha potuto alimentare la leggenda di un’Europa invasa dai rifugiati: di una “crisi dei rifugiati”. L’unico Paese dell’Ue che compare tra i primi dieci del mondo per numero di rifugiati registrati è appunto la Germania: 1,1 milioni di persone accolte e 370.000 domande pendenti (fine 2018). L’apertura tedesca tuttavia rivelò le profonde spaccature politiche all’interno dell’Ue sull’argomento. Alcuni governi cominciarono ad adottare posizioni di rifiuto e ostilità nei confronti dei rifugiati che premevano ai confini. Il 15 settembre 2015 il primo ministro ungherese Viktor Orban decise di chiudere il confine con la Serbia. In ottobre le autorità ungheresi completarono la costruzione di una barriera al confine con la Croazia. A novembre fu la volta del governo austriaco, che intraprese la costruzione di un muro lungo il confine con la Slovenia, mentre il governo sloveno fortificava con filo spinato il confine con la Croazia.
La nascita degli hotspot
La svolta nei sentimenti di molta parte dell’opinione pubblica dei paesi dell’Ue si verificò bruscamente nel mese di novembre, a seguito degli attacchi terroristici di Parigi. Un altro scossone per la cultura dell’accoglienza derivò dai fatti di Colonia nella notte di Capodanno: aggressioni e molestie sessuali attribuite a uomini di origine araba. Il collegamento tra musulmani, terrorismo e stupri alimentò un’ondata di paura e rifiuto nei confronti dei profughi.
Nel frattempo era però maturata a Bruxelles una decisione politica carica di conseguenze: l’istituzione degli hotspot nei punti d’ingresso, sostanzialmente Italia e Grecia, con l’obbligo di identificazione dei nuovi arrivati anche mediante il prelievo forzoso delle impronte digitali. In cambio, la commissione Ue presieduta da Juncker proponeva una ripartizione dei richiedenti asilo tra i Paesi membri. Mentre tuttavia gli hotspot sono entrati rapidamente a regime, la successiva redistribuzione è andata a rilento, o non è avvenuta affatto. Il gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) la respingeva sdegnosamente, altri con toni più felpati (Danimarca, Regno Unito, Irlanda), altri ancora facevano mostra di accettarla ma non l’attuavano, o in minima parte. Quando infine la misura è stata ingloriosamente archiviata, soltanto 13.000 richiedenti asilo erano stati trasferiti dall’Italia e poco più di 20.000 dalla Grecia.
Tensioni xenofobe
La politica dell’asilo non scritta da parte italiana e greca consisteva nell’agevolare il transito verso l’interno dell’Ue dei profughi, che perlopiù non chiedevano di meglio. Gli hotspot, rafforzati dai controlli di frontiera introdotti dagli Stati confinanti, hanno fatto impennare le richieste di asilo nei Paesi di primo ingresso. Sul numero delle persone sbarcate dal mare, nel 2014 solo il 37% avevano presentato domanda di asilo in Italia (66.066); nel 2015 il dato sale al 56% (103.792), poi al 68% nel 2016 (176.554), finendo per superare il 100% nel 2017, pur calando in valore assoluto (119.310), a causa dei respingimenti da altri Paesi Ue e degli ingressi via terra dal confine orientale. L’accresciuto impegno nell’accoglienza e la visibilità dei nuovi arrivati contribuisce ad alimentare nel Paese un’ondata xenofoba: mentre complessivamente l’immigrazione è stazionaria, l’insediamento dei rifugiati (circa 300.000 a fine 2018, su circa 6 milioni d’immigrati: dati Unhcr) viene presentato come un’invasione. Mentre l’immigrazione, in Italia come nel resto dell’Europa occidentale, è prevalentemente femminile ed europea, un diffuso senso comune gonfiato da una propaganda ostile identifica gli immigrati con i giovani maschi africani arrivati dal mare.
I decreti «sicurezza»
Già nel 2016, nel frattempo, il problema degli ingressi di profughi principalmente siriani attraverso la Turchia veniva risolto con l’accordo del 18 marzo con Ankara. In cambio di ingenti aiuti economici e concessioni politiche, tra cui la tolleranza non scritta per la svolta autoritaria di Erdogan, la Turchia assumeva il ruolo di gendarme esterno delle frontiere europee. Nel 2017 anche il corridoio del Mediterraneo centrale veniva chiuso grazie agli accordi di Marco Minniti, allora ministro degli Interni italiano, con il governo e con le milizie locali libiche. In questo caso, anche personaggi ambigui e coinvolti nel traffico di esseri umani erano ingaggiati nel controllo dei transiti. I decreti sicurezza di Matteo Salvini, nel 2018-2019, hanno completato il quadro, spingendo più avanti una scelta di contrasto ai salvataggi in mare che ha condotto a criminalizzare le Ong e a scaccciarle dal Mediterraneo. Già nel 2017 il numero delle richieste di asilo nell’Ue scendeva a 700.000, per poi continuare a calare negli anni successivi: 646.000 nel 2018, di cui circa 60.000 in Italia; 613.000 nel 2019: 142.000 in Germania, 35.000 in Italia.
L’identità tradita
Soprattutto, le politiche europee sono riuscite a schiacciare gli ingressi dal mare: erano stati 1.015.000 nel 2015, si sono ridotti a 114.000 nel 2018. Quasi il 90% in meno. Per l’Italia il dato è sceso a 23.000. Il fantasma dell’invasione si dissocia sempre più dai dati effettivi, a cui la svolta sovranista del nostro Paese ha solo impresso un supplemento di disumanità. Più che di “crisi dei rifugiati” occorre dunque parlare di “crisi dell’accoglienza dei rifugiati”. Nel 1999-2000 un’Ue più piccola dell’attuale accolse un numero di richiedenti asilo dal Kossovo pari a quello del 2015. Ma 15 anni dopo opinioni pubbliche impaurite e governi incerti, pressati dal nazional-populismo in crescita, hanno scelto di disattendere progressivamente i propri impegni umanitari. Come hanno mostrato i violenti respingimenti di inizio marzo al confine greco-turco, hanno deciso di trincerarsi in una fortezza Europa sempre più lontana dai propri principi fondativi.
Questa analisi è pubblicata in contemporanea da La Croix, Avvenire e Nederlands Dagblad