Anniversario. Cutro, quelle ombre sui soccorsi. I sopravvissuti: «Attendiamo giustizia»
La spiaggia di Cutro dopo il naufragio
«Stiamo aspettando verità e giustizia...». Lo ripete pacatamente, ma con determinazione, il 31enne afghano Alidad Shiri, dando voce alla stessa richiesta che da dodici mesi sale da altre decine di familiari delle vittime del naufragio a Steccato di Cutro, in cui sono perite almeno 94 persone, compresi 34 minori, oltre a 81 sopravvissuti e una decina di dispersi. In quel tratto di Ionio, Alidad ha perso un cugino 17enne. «Lo abbiamo visto in un video, mentre era su quella barca. Però il suo corpo non è stato trovato. E ancora adesso io non so come dirlo a mia zia». Quelli delle presunte vittime non ritrovate e dei corpi, almeno 5, ancora non riconosciuti, sono solo alcuni degli interrogativi ancora aperti, a 365 giorni dal tragico affondamento del caicco turco Summer Love, la cui chiglia si frantumò contro un banco di sabbia a un centinaio di metri dalla riva prima dell’alba del 26 febbraio 2023. Sulla vicenda sono state aperte dalla magistratura tre inchieste: una, della Procura di Crotone si è occupata dei presunti scafisti è giunta a processo; la seconda, sempre a Crotone, sta investigando su ritardi e presunte omissioni nella macchina dei soccorsi come concausa del disastro e potrebbe chiudersi entro marzo; la terza, sulla rete di trafficanti che, in Turchia e in altri Paesi, ha organizzato il viaggio, è stata aperta dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ed è in corso. Dalle pieghe delle indagini e dalle dichiarazioni rese in tribunale da diversi testimoni, emerge un quadro con molte zone d’ombra da illuminare.
Lo scafista condannato: sono un capro espiatorio. Il 7 febbraio, il tribunale di Crotone ha condannato a 20 anni di detenzione e a 3 milioni di multa Gun Ufuk, 29enne turco l’unico dei 4 scafisti e unico a chiedere il rito abbreviato, ritenuto colpevole di favoreggiamento d’immigrazione clandestina, naufragio colposo, morte come conseguenza di altro delitto. Per il suo avvocato, Salvatore Falcone, è stato «un capro espiatorio di chi doveva intervenire», perché «se in quel momento ci fosse stata una qualsiasi unità di soccorso, non ci sarebbero stati tutti quei morti». Gli altri presunti scafisti - Sami Fuat, 50enne turco; i pakistani Khalid Arslan, 25anni, e Ishaq Hassnan, 22- hanno invece scelto il rito ordinario. E nel dibattimento, «stanno emergendo particolari interessanti anche rispetto all’inchiesta sui soccorsi tardivi, affidata al pm Pasquale Festa e al procuratore uscente, ma ancora facente funzioni, Giuseppe Capoccia. In questo troncone, nel registro degli indagati ci sono sei nomi: tre ufficiali e sottufficiali della Guardia di finanza (due del Reparto aeronavale di Vibo Valentia e uno di Taranto); altri tre coperti da omissis negli atti giudiziari (ma che secondo alcune fonti potrebbero essere militari della Guardia Costiera in servizio al Centro Icc di Pratica di Mare e alla Capitaneria di Reggio Calabria). Sulla vicenda, ma non ci sono conferme, potrebbe inoltre aver aperto un fascicolo per competenza la procura militare di Napoli.
Quelle ore di mancato intervento Sar. Gli interrogativi cardine riguardano il lasso di tempo fra le 23 di sabato 25 - quando un velivolo Frontex segnala la presenza del caicco stracarico di migranti a 40 miglia dalla costa - e le 4.15 di domenica 26, presunta ora del naufragio. In quelle ore, davanti alla costa, il mare è forza 4 e il vento forza 5. Ma, nonostante la segnalazione di Frontex imprecisa (i dati su rotta e velocità del caicco erano «approssimativi se non fuorvianti», annota in una perizia l’ammiraglio Salvatore Carannante), perché nessun mezzo di soccorso uscì in mare? L’evento venne infatti gestito non come Sar (Search and rescue, soccorso e salvataggio, da affidare ai mezzi della Guardia costiera adatti a operare in «condizioni meteo-marine avverse») ma come law enforcement, cioè attività di contrasto all’immigrazione clandestina, affidata alle vedette della Guardia di finanza che poi, alle 3.48, rientrarono in porto per il mare grosso.
I carabinieri: nessuno ci aveva allertati. «Quando ho chiamato la Guardia costiera per avvisarla della presenza di una barca in pericolo, mi hanno detto che sapevano già dell'imbarcazione naufragata. Ma sul posto, in quel momento, non c'era ancora nessuno», ha risposto durante il processo agli scafisti il pescatore Ivan Paone alla domanda dell'avvocato di parte civile Francesco Verri, che con un pool di colleghi crotonesi (Luigi Li Gotti, Vincenzo Cardone e Mitja Galuz) difende diversi familiari delle vittime. Un altro teste cruciale potrebbe rivelarsi uno dei due carabinieri, che hanno salvato almeno una ventina di persone. «Eravamo impegnati a Rocca di Neto quando siamo stati avvisati dello sbarco. Erano le 4,15 e siamo arrivati alle 5. Non ci avevano preallertati che ci potesse essere uno sbarco, nessuno ci aveva avvertito che stava per arrivare una barca di migranti – ha detto in aula il vicebrigadiere dell’Arma Gianrocco Chievoli –. Appena arrivati sulla spiaggia ci siamo resi conto della gravità della situazione e abbiamo chiesto rinforzi. La prima pattuglia di colleghi di Botricello l’ho vista circa 40 minuti dopo».
«Vogliamo denunciare lo Stato italiano». Ancora più tardi, alle 6.50, sarebbe arrivato dal mare un mezzo della Guardia costiera. Nel frattempo però, alcuni naufraghi rimasti a galla per tre ore stavano morendo di assideramento: un bambino, in particolare, secondo i medici legali sarebbe annegato anche a causa del freddo. Allora i dubbi si accumulano: perché, se si sapeva del possibile arrivo di un barcone dalle 23, i primi soccorsi a terra sono arrivati alle 5 di mattina e quelli in mare addirittura alle 7? Quella sui mancati soccorsi, ragiona l’avvocato Enrico Calabrese, che insieme al collega Marco Bona difende altri superstiti, è «la madre di tutte le domande, a cui auspichiamo che un processo dia presto risposta». Lo chiedono associazioni, enti umanitari e, soprattutto, i parenti di chi non ce l’ha fatta e i sopravvissuti. «Il governo italiano sapeva della presenza della nostra barca – accusa Nigeena Mamozai, 24enne afghana che quella notte si salvò e ora vive in Germania –. Abbiamo visto un elicottero 7 ore prima del naufragio. Perciò adesso vogliamo denunciare lo Stato italiano».