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L'appello. Naufragio di Cutro, i familiari delle vittime: «Promesse ignorate»

Vincenzo R. Spagnolo venerdì 5 luglio 2024

«Vorrei che l’Unione Europea realizzasse canali legali di ingresso per i rifugiati afghani, in modo che possano venire in Europa legalmente e senza rischiare la vita, come invece ha dovuto fare mio fratello, che era sulla barca naufragata a Cutro ed è morto». Zahra Barati, trentenne di origine afghana, racconta con tono triste di Sajad, il fratello che le onde del mare le hanno strappato via. Aveva 23 anni, sapeva giocare a calcio e sognava di diventare un campione in Europa, lontano dalle angherie del regime dei Taleban. Ma i suoi sogni sono annegati all’alba del 26 febbraio 2023 quando il caicco Summer Love, partito dalla Turchia giorni prima con quasi 200 migranti a bordo, si è fracassato su una secca a poche centinaia di metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro, con un bilancio agghiacciante: 94 vittime, fra cui 35 bambini, 80 sopravvissuti e una decina di dispersi, mai ritrovati. Su quella strage, la Procura di Crotone ha avviato due filoni di indagine: uno a carico dei presunti scafisti, condannati uno dopo l’altro a pene severe; l’altro, per presunte omissioni o responsabilità nella catena dei soccorsi, a carico di tre militari della Guardia di Finanza e di altre tre persone i cui nomi sono stati “omissati”, che ancora non è giunto alla fase dell’eventuale richiesta di rinvio a giudizio o archiviazione.

I familiari in Parlamento

Tre giorni fa, Zahra è giunta a Roma dalla Finlandia, dove risiede con un visto per rifugiati, per tenere un’audizione a Montecitorio, davanti al Comitato permanente per i diritti umani nel mondo, presieduto da Laura Boldrini. Un intervento accorato, in cui la trentenne afghana ha rammentato al governo italiano la promessa (ribadita dalla premier Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, il 16 marzo 2023, in un incontro coi familiari delle vittime) di portare nel nostro Paese i parenti dei sopravvissuti e di chi non ce l’aveva fatta. Suo fratello, ha detto, avrebbe voluto far arrivare in Europa anche il resto della famiglia, «ma purtroppo questo desiderio non si è ancora realizzato». Eppure, ragiona Zhara, «la situazione attuale in Afghanistan è estremamente grave, soprattutto per le ragazze e le donne: non hanno il diritto di studiare, lavorare e prendere decisioni, e sono imprigionate nelle loro case».

«Non lasciateci soli»

Accanto a lei, in audizione è intervenuto il professor Gulaqa Jamshidi, che in quella tragedia ha perso quattro familiari: il cugino Kakaim Wazir Ahmed Zainel, con moglie e figli, un ragazzino undicenne e una bimba di sette anni. La loro fine dovrebbe pesare come un macigno sulla coscienza delle istituzioni italiane, perché è una storia di promesse non mantenute: «Kakaim era un ufficiale di sicurezza del governo repubblicano ad Herat, aveva una collaborazione diretta con le forze della Nato, in particolare coi soldati italiani», ha raccontato suo cugino. Con l’avvento del regime, per evitare rappresaglie era fuggito in Iran e poi in Turchia, in attesa che il governo italiano lo aiutasse a trasferirsi con la famiglia in Italia. In mancanza di risposte concrete, era poi salito sul caicco della morte. Ora il professor Jamshidi è venuto in Parlamento a ricordare gli impegni presi: «In un incontro con la presidente del Consiglio, ci era stato garantito il ricongiungimento dei familiari delle vittime in Italia. Ma ad oggi, ciò non è avvenuto», ha detto, chiedendo ai parlamentari del Comitato di «seguire da vicino la questione» e di «non lasciare solo il popolo afghano fino a quando non si insedierà un governo democratico, legittimamente eletto, impegnato nell’attuazione della giustizia, del diritto, della libertà e della democrazia». Nel frattempo, lui stesso resiste in Italia in condizioni difficili: già professore universitario e capo dell’ufficio del governatore di Herat durante la fase repubblicana, ora è rifugiato politico. Insieme alla moglie e a tre figli, vive in Puglia: «Per sostenere la mia famiglia, lavoro a giornata come bracciante, ma non tutti i giorni. E mia moglie è disoccupata».

Boldrini: promesse non mantenute, il governo risponda

Con la loro voce pacata, l’atteggiamento composto e dignitoso, Zhara e Jamshidi parlano anche a nome delle altre decine di familiari delle vittime di Cutro, che non sono potute venire in Parlamento a rappresentare la propria situazione. Le loro richieste sono state raccolte dalla presidente del Comitato, la dem Laura Boldrini: «Ciò che abbiamo ascoltato s’interseca con più questioni: le condizioni di vita difficilissime per i rifugiati in Italia; i corridoi umanitari per per le persone a rischio in Afghanistan ridotti al minino; le promesse non mantenute nei confronti dei collaboratori afghani della Nato non trasferiti fuori dal Paese; e quelle cadute nel vuoto, della presidente del Consiglio ai familiari delle vittime di Cutro, per portarli in in Italia», dice ad Avvenire l’esponente del Pd, che ieri ha depositato un’interrogazione parlamentare al ministro degli Esteri Antonio Tajani, per «chiedere spiegazioni su questi impegni disattesi».

L’appello al capo dello Stato: Roccella come Cutro

Alla Camera c’era pure Manuelita Scigliano, presidente dell’associazione crotonese Sabir, che fa parte della Rete 26 febbraio. «Il caso di Cutro si sta ripetendo purtroppo col naufragio a Roccella Ionica di metà giugno: 70 vittime, tanti bambini...», denuncia, perciò «abbiamo lanciato un appello accorato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che stette al fianco dei familiari di Cutro» affinché lo Stato si faccia carico anche a Roccella del sostegno ai familiari e si attivi per permettere il rimpatrio delle salme. «Presidente - conclude l’appello - i corpi martoriati dei morti di Roccella chiedono che sia garantita loro la stessa dignità dei morti di Cutro, e i familiari di queste vittime chiedono lo stesso rispetto, la stessa solidarietà dimostrata allora».