Attualità

Cure per la sindrome di Down? L'Italia non ci crede

Caterina Dall'Olio martedì 27 agosto 2013
« Alla fine degli anni settan­ta, il profes­sor Lejeune era convinto che si potesse trovare una terapia per curare la sindro­me di Down, una patologia che è considerata irreversi­bile nella mentalità comu­ne, essendo particolarmen­te complessa». Lo spiega Pierluigi Strippoli che guida un’equipe di ricerca sulla sindrome di Down nel La­boratorio di Genomica del dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Univer­sità di Bologna. Lejeune come era arrivato a questa considerazione? Si rese conto che il cromo­soma in più presente nei bambini Down produceva un eccesso di proteine. L’uomo normalmente ha due cromosomi che produ­cono una certa quantità di proteine. Con un cromoso­ma in più quelle proteine sono in eccesso. Definì que­sto fatto un’intossicazione cronica. Un’intuizione straordinaria perché di fronte a una struttura gene­tica alterata la medicina si sente impotente. Al contra­rio davanti a un’intossica­zione si può agire identifi­cando il componente in più e provando a inibirlo o a ri­muoverlo. La ricerca sulla sindrome di Down però a tutt’oggi non è tra le più sviluppate... In Italia e non solo si inve­ste di più sulle cosiddette malattie monofattoriali, do­vute a singoli geni. Le ricer­che sulla trisomia 21 sono portate avanti da pochissi­mi gruppi in tutto il mondo. Situazione paradossale per­ché si tratta di una condi­zione genetica molto co­mune. I gruppi di ricerca come si rapportano alla materia? A livello internazionale ha preso piede la ricerca con alcuni ceppi di topi che pos­sono mimare alcuni aspet­ti della trisomia 21. Poi ci so­no gruppi di ricerca in bio­logia e in genetica moleco­lare. Noi cerchiamo di uni­re lo studio degli aspetti cli­nici con l’analisi delle map­pe del cromosoma 21, che stiamo contribuendo a completare. Dopo 20 anni di ricerche in laboratorio, mi sono reso conto che era fondamentale tornare in re­parto per identificare sog­getti con caratteristiche che potrebbero illuminare alcu­ni aspetti della sindrome. Strategia che mi ha consi­gliato la stessa moglie di Lejeune. Metodo già applicato da lui... Ho iniziato a leggere i suoi lavori della fine degli anni settanta e mi hanno lette­ralmente illuminato. Cosa del tutto insolita dal mo­mento che in medicina un testo che ha compiuto un anno è considerato vecchio. Lejeune aveva capito che si potevano legare tutti i sin­tomi della malattia a speci­fiche attività biochimiche codificate nel cromosoma. Ha compiuto studi biochi­mici per capire quali vie me­taboliche fossero principal­mente alterate nella sindro­me. Oggi abbiamo la possi­bilità di continuare questi studi con strumenti molto più avanzati. Qual è il vostro punto di for­za?Stiamo analizzando a livel­lo bioinformatico l’attività dei geni del cromosoma 21 anche nei tessuti normali, per identificare quelli mag­giormente espressi negli or­gani più colpiti dalla sin­drome: il cervello, il cuore e la tiroide. Vogliamo identifi­care le regioni critiche del cromosoma che sono le principali responsabili dei sintomi. Solo quando que­sto sarà stato fatto potremo ipotizzare una terapia ra­zionale. A cosa serve oggi capire se un bambino è Down prima della nascita? Concretamente l’unica rea­le applicazione della cono­scenza prenatale risiede nel prevedere con maggiore tempestività cure cardiolo­giche e cardiochirurgiche. Ma per questo basterebbe l’ecografia. Sta diventando possibile identificare un cromosoma 21 in eccesso sequenziando il Dna fetale nel sangue materno con un’affidabilità del 99 per cento. Questo vuol dire che una mamma potrà sapere in anticipo con una certez­za quasi assoluta se suo fi­glio è Down o no, senza ri­correre agli esami forte­mente invasivi oggi dispo­nibili. L’amniocentesi e la villocentesi, sebbene siano considerati e­sami di routine, continuano ad avere una per­centuale di a­borto aggiunti­vo causato dal­la manovra di quasi l’1 per cento. In un ca­so su 150 si ve­rificherà l’a­borto in segui­to alla mano­vra, indipen­dentemente dallo stato del feto. Però la comunità scientifi­ca sta continuando a muo­versi anche in questa dire­zione... Sono due filoni di ricerca as­solutamente distinti: mi­gliorare la capacità della diagnosi per identificare i feti Down e, di fatto, non far­li nascere oppure lavorare per trovare una terapia e u­na cura. Dalla letteratura medica degli ultimi vent’an­ni emerge che le ricerche sulla diagnosi prenatale del­la sindrome di Down sono almeno dieci volte superio­ri a quelle finalizzate a tro­vare i meccanismi della ma­lattia. Come diceva Lejeu­ne, quando nella storia del­la medicina si è provato a sconfiggere una malattia e­liminando i malati, questo non ha mai portato a un progresso della medicina stessa. Al di là dell’evidente problema etico, ce n’è an­che uno scientifico. Qual è quindi il vostro sco­po? Identificare composti natu­rali o farmaci la cui miscela potrebbe riuscire a inibire le attività che sono presenti in eccesso nelle cellule triso­miche. Que­sti potreb­bero essere sommini­strati dopo la nascita, e forse anche prima. Noi stiamo con­centrando gli studi a li­vello pedia­trico. Ci so­no già stati sviluppi in questa dire­zione nel mondo: in Spagna stanno studiando un inibi­tore naturale, un polifenolo che si estrae dal tè verde. I dati preliminari non parla­no di risultati eclatanti ma è interessante il principio al­la base dello studio.In che tempi potreste riu­scire a scoprire qualcosa di risolutivo? Nella ricerca non si può mai prevedere nulla. Quello che è certo è che noi abbiamo preso una direzione precisa che potrebbe dare dei risul­tati concreti. Grazie alla mia esperienza ho capito che, quando si cerca una solu­zione, qualcosa si trova sempre.