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Il caso. Crac banche venete, i conti sui risarcimenti non tornano ancora

Marco Birolini sabato 6 gennaio 2024

«Sarà nostro impegno, qualora ricevessimo dai cittadini l’incarico di governare questa Nazione, assicurarci che i fondi rimanenti del Fir (400 milioni di euro) vengano effettivamente spesi per gli indennizzi dei risparmiatori e non orientati verso altri progetti». Così scriveva nell’ottobre 2022 Giorgia Meloni, pochi giorni prima di vincere le elezioni, alle vittime del crac di Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Una promessa mantenuta finora a metà: circa 200 milioni sono stati distribuiti a fine anno, ne restano altrettanti la cui sorte non è così certa. «C’è voluto un anno ma alla fine i soldi sono arrivati – dice Luigi Ugone, presidente dell’associazione “Noi che credevamo”, che rappresenta 3.300 azionisti rovinati dal crac – non sono mancati gli intoppi, perché qualche bonifico di Consap è finito su coordinate bancarie vecchie. Ma tutto sommato siamo soddisfatti: al 30% di risarcimento già versato si è aggiunto questo 10%. Finora le persone risarcite per i fallimenti delle banche in Italia sono 145 mila, l’80% dei quali veneti. C’è la sensazione di aver recuperato, oltre a parte del denaro perso, anche un pezzo di dignità».

Resta in bilico l’ultima tranche di circa 220 milioni (il Fondo per l’indennizzo dei risparmiatori disponeva in totale di 1 miliardo e 575 milioni di euro), sulla carta già vincolati allo scopo. «In questo ultimo anno non abbiamo più sentito direttamente la presidente Meloni, ma i contatti con il suo staff e il governo sono continuati – dice Ugone – Pochi giorni fa abbiamo visto anche il vicepremier Matteo Salvini. Ci hanno garantito che presto arriverà anche questa ultima tranche, ma non siamo del tutto tranquilli…”». Ugone spiega che «alcuni senatori veneti hanno raccolto a Roma voci poco rassicuranti: visti i tempi difficili, non vorremmo che fossero destinati ad altro. Significherebbe risparmiare sulla testa di 200mila famiglie che hanno perso 10 miliardi di euro. Così come ci dispiacerebbe che questi soldi venissero spesi per altro, magari per portare armi in un Paese in guerra».

Nel Nordest la ferita fatica a rimarginarsi. Troppo grande il danno economico, senza contare le macerie psicologiche e morali lasciate dallo scandalo. «Per noi è stato uno tsunami – sospira Ugone – si è spezzato quel legame di profonda fiducia che c’era con le nostre banche. Un dramma dimenticato troppo in fretta a livello nazionale: si parla spesso di grandi questioni, ma la politica purtroppo ha perso di vista i piccoli grandi problemi dei territori. Specialmente del nostro, che così tanto ha dato al Paese… Occorre capire che quando si incrina la credibilità dei vertici bancari i costi sono enormi: se la gente tiene i soldi sotto il materasso si inceppa l’intero sistema economico».

Il senso di amarezza è amplificato anche da una vicenda giudiziaria complessa e non ancora conclusa. Tre settimane fa la Corte di Cassazione ha congelato il suo verdetto su Gianni Zonin, l’ex presidente della Banca Popolare di Vicenza che in appello aveva rimediato 3 anni e 11 mesi (pena quasi dimezzata rispetto al primo grado). Prima di pronunciarsi, i supremi giudici vogliono il parere della Corte Costituzionale sulla maxi confisca di 963 milioni di euro a carico degli imputati. «Ma noi non cerchiamo vendetta, soltanto giustizia» rimarca Ugone, che poi aggiunge: «Visti i poteri e le pressioni che si sono messi di mezzo è già qualcosa che il procedimento sia andato avanti».
Don Matteo Zorzanello, direttore della pastorale sociale del lavoro di Vicenza, è stato fin dall’inizio al fianco di chi in un attimo ha perso tutto. «Quel che resta è un senso di tradimento, ben descritto dal recente film di Antonio Albanese (Cento domeniche, presentato a novembre proprio a Vicenza e ispirato al crac delle banche venete, ndr) - spiega – Stiamo parlando della banca del paese, dove andava il papà e prima ancora il nonno. Un prolungamento della famiglia. Per questo è stato come essere traditi da una moglie o da un marito. Non è stato solo un imbroglio, ma una vera coltellata alle spalle. L’ultima cosa che ti aspettavi era essere fregati non da un forestiero, ma da uno di noi». L’inganno “a casa propria” ha lasciato segni profondi nell’intera comunità. «Prima del crac ci si confrontava sulle scelte locali, penso alla costruzione della caserma Dal Molin. Chi era a favore, chi contro. Ora invece ognuno si è ritirato nel suo guscio. Il pensiero comune è: tanto a cosa serve, anche se protesto o dico la mia decidono altrove. Un atteggiamento di sfiducia che si è tradotto anche nel voto, con un’astensione mai vista in passato».
La sciagura economica si è trasformata in malattia dell’animo. Come curarla? «Con una ritrovata partecipazione – osserva don Zorzanello – che sarà poi il tema della settimana sociale di Trieste, in luglio. Occorre uscire dall’individualismo e dal ritiro nel privato. C’è l’ìdea di coinvolgere le comunità locali per ripensarsi e condividere insieme dei percorsi. Non bastano più gli input dall’alto, meglio fare rete con Comuni, scuole, associazioni. Solo così si può tentare di rimettere insieme i pezzi e riannodare i fili del tessuto sociale».