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Covid. «L'inchiesta di Bergamo non basta Adesso deve cambiare la sanità italiana»

Viviana Daloiso sabato 4 marzo 2023

«Davanti ai morti occorrerebbe stare in silenzio». Il direttore dell’Istituto Mario Negri, Giuseppe Remuzzi, è nato e cresciuto a Bergamo. E da bergamasco prima che da uomo di scienza e di ricerca, in queste ore di dibattito convulso sull’inchiesta della Procura che ha messo sul banco degli imputati per le gestione del Covid in Val Seriana tutti i vertici del governo nazionale e lombardo (oltre a quelli delle autorità sanitarie e della Protezione civile), guarda al capo dello Stato Sergio Mattarella, immobile e ammutolito innanzi alle bare di Cutro. Anche a Bergamo, tre anni fa, sfilarono le bare. Caricate disordinatamente sui camion dell’esercito e portate lontano, perché in città e nella sua provincia non c’era più posto per i morti di coronavirus. Oltre 4mila in più di quelli che si sarebbero contati in un anno qualunque, secondo la ricostruzione dei pm, e per la cui scomparsa ora sono sotto accusa a vario titolo l’ex premier Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana con l’ex assessore al Welfare Giulio Gallera, i presidenti dell’Istituto superiore di sanità e del Consiglio superiore di sanità Silvio Brusaferro e Franco Locatelli.

Giuseppe Remuzzi - .

Professore, chi la conosce sa che non entrerà mai nel merito dell’inchiesta di Bergamo. Eppure ci sono cose da dire, su quello che è successo tre anni fa e che sta succedendo ora.

Dell’inchiesta non parlerò, infatti. E in ogni caso sarebbe impossibile dare un giudizio senza esaminare le carte e gli atti, che in alcuni servizi televisivi ho curiosamente visto trasportare all’interno di enormi scatoloni di cartone... Quello che è successo, tre anni fa, è una cosa spaventosa: un virus mai visto, di cui nessuno al mondo sapeva niente, il via vai delle ambulanze, le telefonate dei pazienti, le troppe persone di cui occuparsi, le bombole di ossigeno che mancavano, i medici costretti a decidere chi far vivere e chi lasciar morire. Quello che succede ora, a mio avviso, è piuttosto incomprensibile: si procede cercando la colpa delle singole persone senza andare alla radice della questione. Come se il Covid, l’emergenza catastrofica che abbiamo vissuto, i malati che non ci stavano negli ospedali e i morti li avesse visti e contati soltanto Bergamo. Non è così: quello che è successo a Bergamo è successo a Lodi, a Monza, a Brescia e poi nel resto d’Italia. Quello che è stato fatto, è stato fatto ovunque. C’è una cornice globale del problema che va presa in esame e, indipendentemente dai suoi contenuti, questa inchiesta non lo fa.

A cosa si riferisce?

Alle condizioni del nostro Servizio sanitario nazionale. Alle condizioni in cui era e in cui è ora. Il Covid ha incontrato nel nostro Paese una sanità trascurata per troppo tempo, del tutto priva di organizzazione territoriale, con gli ospedali impoveriti delle attività, demandate al privato, e la spina dorsale dei medici di medicina generale del tutto svincolata dalle governance regionali. Questo è stato il problema. Badi bene, la nostra sanità ha anche fatto miracoli: abbiamo avuto, tra quei medici, chi si è messo sulla prima linea dell’assistenza domiciliare e che è arrivato a sacrificare la propria vita per tentare di seguire i pazienti che non trovavano posto in corsia. Abbiamo avuto nefrologi e ortopedici che hanno imparato le manovre di assistenza respiratoria. Abbiamo visto gli ospedali riconvertirsi in tempi record e organizzare reparti attrezzati per il Covid. Ma, quando l’emergenza è passata, ci siamo detti che le cose dovevano cambiare, che occorreva una riorganizzazione dei servizi così da non farci trovare più impreparati di fronte a un’altra pandemia.

E cosa è stato fatto?

Niente. Il Servizio sanitario versa in uno stato di crisi gravissimo e siamo fermi. Quello che andrebbe fatto è elencato nei dettagli nella Missione 6 del Pnrr, che per il cambiamento necessario stanzia fondi: servono distretti, case di comunità, ospedali di prossimità. Serve il coinvolgimento decisivo dei medici di famiglia, nonostante anche dopo il Covid – sembra incredibile – siano tornate a farsi sentire proteste e obiezioni dettate da interessi corporativi. Servono un’attenzione specifica e percorsi dedicati per gli anziani. In altri Paesi del mondo, dove la pandemia ha fatto gravissimi danni come da noi, ci si è già organizzati o perlomeno si è cominciato a farlo. Un editoriale recente del New England journal of medicine ha suggerito che negli Usa, la terra delle assicu-razioni, si dovrebbe cominciare a pensare a una sanità pubblica mettendo addirittura in discussione il principio della sanità privata. Sembrava impossibile, ma il virus ha insegnato anche a loro che le pandemie sono questioni di salute pubblica.

Il problema non è il “chi” dunque?

Non lo è affatto. Se ci fosse stato qualcun altro al posto di coloro che adesso sono sotto accusa, sarebbe stata colpa di qualcun altro. Non è trovando il colpevole o i colpevoli che rendiamo giustizia alle vittime, ma evitando che quello che è successo possa ripetersi.

Il procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani, ha dichiarato che le indagini sono state fatte per rispondere alla «sete di verità della popolazione ».

L’inchiesta è senz’altro un atto dovuto, è comprensibile e logico cercare di capire cosa è successo. Mi ripeto: è incomprensibile che venga fatto soltanto per Bergamo. Le persone sono morte dappertutto, dentro e fuori dall’Italia anche, in Paesi avanzati dal punto di vista tecnologico, industrializzati, democratici.

Lei professore è allora d’accordo sull’avvio di una Commissione d’inchiesta parlamentare sul Covid, in queste ore al vaglio delle Camere?

Se fatta di persone competenti, e tenendo fuori gli interessi di parte della politica, sì. Ma non ricordo purtroppo nella storia del nostro Paese una Commissione d’inchiesta che abbia risolto qualche problema o contribuito a cambiare le cose. La nostra sanità invece deve cambiare, e in fretta. Arriverà un’altra pandemia, questa non è un’eventualità ma una certezza. Non deve più trovarci impreparati.