Infanzia. «Covid, allarme abusi»
Drammatico appello dal convegno mondiale di Milano: nei mesi della pandemia impennata di violenze. Un miliardo di bambini ogni anno nel mondo (uno su due) è vittima di violenza; 40.150 bambini perdono la vita a causa di questi soprusi; tre bambini su quattro, tra 2 e 4 anni, subiscono punizioni violente da parte dei propri genitori o insegnanti. In Italia la situazione non è più confortante. I bambini in carico ai servizi sociali sono circa 402mila. Quelli vittima di qualche forma di maltrattamento 77.493 (58% al Nord, il 40% al Centro, 29% al Sud). E chi sono i maltrattanti? Un familiare (91,4%) e solo nell’8,6 dei casi una persona estranea alla famiglia.
I dati emersi dall’ultimo rilievo dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza fanno da cornice al convegno mondiale organizzato da Ispcan (Società internazionale per la prevenzione degli abusi sui bambini) e Cismai (Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’Infanzia) con il patrocinio dell’Università di Milano-Bicocca. Evento che da lunedì sta coinvolgendo oltre 400 esperti in rappresentanza di 70 Paesi nel mondo. Tanti i temi del dibattito che si chiude oggi. Dalla raccolta dei dati sul maltrattamento agli interventi di prevenzione, dalla violenza assistita ai servizi per i minori migranti, fino all’impatto del Covid 19. Una situazione di prolungato stress a livello familiare, di condizioni lavorative precarie e di mancato o ridotto accesso alla scuola e ai servizi socio-sanitari, che ha fatto aumentare il rischio di maltrattamento nel lungo periodo e promette guai ancora peggiori in futuro.
Lo raccontano le esperienze di migliaia di famiglie ma anche tanti studi portati a termine in questi mesi. Come quello della Alleanza per la protezione dell’infanzia nelle azioni umanitarie (Acpha) secondo cui le misure prese per contenere le pandemie stanno avendo l’effetto di modificare l’ambiente in cui le bambine e i bambini vivono, e di conseguenza aumentano la loro vulnerabilità a violenza, abusi e trascuratezza.
Lo racconta preoccupata Elisabetta Biffi, docente di pedagogia generale a Milano-Bicocca, responsabile del comitato scientifico del convegno. L’università milanese non è solo ente organizzatore del grande appuntamento ma sta arricchendo il dibattito con alcuni tra gli approfondimenti più originali. Come il simposio sul rapporto tra l’educazione alle relazioni affettive e il fenomeno della violenza, ma anche la ricerca 'genitori in lockdown', un progetto europeo realizzato con la collaborazione tra circa mille famiglie – tra marzo e maggio dello scorso anno – di cui il 90 per cento madri che hanno risposto dalla Lombardia. «Da questa ricerca – spiega Biffi – partiremo con un vero e proprio curriculum per la formazione dei genitori. È importante che madri e padri comprendano come si può prevenire la violenza per aiutare a loro volta i figli a leggere la complessità delle diverse situazioni preludio dell’abuso». Un’analisi che non dimentica il fatto più drammatico, 9 abusi su 10 nascono in famiglia, frutto di situazioni contingenti (tensioni, conflittualità se non vere e proprie patologie), ma anche di un vuoto educativo che va colmato al più presto.
Un punto su cui ha insistito anche Luigi Cancrini, presidente del Centro Studi terapia familiare e relazionale, per quasi 20 anni responsabile del Centro bambino maltrattato di Roma. Nel suo intervento ha raccontato la vicenda di un bambino che, dopo gli abusi subiti dal padre, è riuscito a ricucire la sua sofferenza solo dopo una terapia proseguita per molti anni presso la comunità Domus de Luna in Sardegna. Nel frattempo anche il padre, dopo aver scontato la condanna, ha fatto un lungo percorso in una comunità terapeutica ed è arrivato la comprendere l’enormità del male compiuto.
Una storia da cui emergono due punti fermi. Nelle situazioni più gravi i servizi sociali devono occuparsi dell’intero nucleo familiare, mettendo però sempre al centro il bambino che non va soltanto messo in tutela ma va anche curato. «La verifica dell’abuso – spiega Cancrini – si compie su due piani: c’è il giudizio penale, con i tempi della giustizia, ma quello che interessa a noi terapeuti è aiutare i bambini a curare le loro ferite». Nel lavoro psicoterapeutico il piccolo viene messo nelle condizioni per ricordare con esattezza quello che gli è successo.
«Ci sono tante situazioni diverse, tante separazioni conflittuali in cui spesso un genitore accusa l’altro per metterlo in difficoltà». Questi tentativi di rimescolare le carte complicano le valutazioni di chi deve esprimere un giudizio ma, osserva ancora Cancrini, «per il terapeuta non dovrebbe mai risultare così difficile arrivare a capire come stanno le cose, comprendere se l’abuso, anche psicologico, c’è stato oppure no». Per aiutare davvero il bambino a comprendere cosa gli è successo, occorre accompagnarlo a ritrovare la "memoria corretta".
E quando è molto piccolo? «Ci sono comportamenti non verbali e tracce fisiche che ci possono aiutare, ma dai 4 anni in poi il bambino comincia a ricordare e può elaborare in modo chiaro i ricordi nel tempo». Questo accompagnamento è già un lavoro terapeutico che poi va proseguito nel tempo. Le stesse attenzioni vanno riservate ai genitori che devono essere aiutati a capire. «Quando l’abusante mette a fuoco quanto è capitato e comprende l’enormità del male commesso nei confronti del figlio o della figlia – conclude Cancrini – prova forse il dolore più grande che possa toccare un genitore»
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