«Ore 13, vado a farmi l’ora d’aria. In un cortile di 500 metri quadri i detenuti si dividono secondo la nazionalità. Dopo poco, tunisini e marocchini si fanno da una parte, gli albanesi dall’altra. Un minuto e scoppia l’inferno. Tutti scappano, non si sa dove. Il tunisino al centro del pestaggio cade. Escono punteruoli, cinghia con sassi, lui è una maschera di sangue. La folla dei detenuti ondeggia, cerca di sfuggire. Arrivano gli agenti, qualcosa si ferma. Finalmente ci portano fuori».Dal carcere milanese di San Vittore Antonio Simone, l’imprenditore legato a Cl indagato nel caso Daccò-Maugeri e attualmente in detenzione preventiva, scrive; e il sito web del settimanale 'Tempi', di cui è un fondatore, da due mesi pubblica. Simone dice di un detenuto che si autoevira, della lotta quotidiana con bande di scarafaggi che scorrazzano a 15 centimetri dalla branda più bassa; di com’è, vivere in sei uomini in sette metri quadri – dandosi il cambio, chi sta sdraiato e chi sta in piedi. Annuncia che i suoi compagni chiedono di essere considerati non uomini, ma maiali: giacché, secondo la Ue, un maiale d’allevamento ha diritto a un box di ben 7 metri quadri – tutto per lui.
Che San Vittore, come del resto molte carceri italiane, sia un gran brutto posto, a Milano lo si sa bene. Un posto «disperato e disperante», lo ha definito pochi mesi fa il sindaco Giuliano Pisapia. Solo che in genere a finirci dentro sono extracomunitari o tossicomani, gente che raramente scrive, e che, qualora scrivesse, non trova molto spazio sui giornali. E dunque la corrispondenza di Simone, all’incrocio fra un carcere costruito a fine Ottocento e il web, somiglia ormai a un caso mediatico. In buon italiano un detenuto della Milano borghese racconta come si vive in quel palazzaccio a tre minuti dalla basilica di Sant’Ambrogio.E su una platea abitualmente lontana dagli 'utenti' delle carceri queste lettere fanno l’effetto di manoscritti in bottiglia lanciati da un’isola d’esilio in un oceano lontano; senonché quell’isola è nel cuore di Milano. Allora, in qualcuno che legge sorge una domanda. Si sa, che molte carceri italiane sono indecenti; e però che appena dietro il portone di piazza Filangieri si apra un altro mondo, proprio dentro questa Milano che si vanta di essere europea, capitale morale, amante della legalità, questo impressiona.
Qualcuno arriva perfino a chiedersi perché, come è possibile; e per di più, in un carcere in cui la grande maggioranza dei detenuti è in attesa di giudizio, e alcuni, come Simone, in carcerazione preventiva. Sarebbe a dire, ci si dice, che anche io, o mio figlio, magari per un errore, potremmo finire lì dentro? E il palazzaccio che i milanesi costeggiano, con le sue mura alte, lungo viale Papiniano, diventa nella immaginazione come un buco nero, qualcosa di assurdamente incrostato nel tessuto di Milano.
Già, com’è possibile? Forse lo è perché in un certo sentire diffuso e forcaiolo chi va 'dentro' comunque se lo merita, e tanto peggio per lui. Forse, perché in termini di ritorno elettorale interessarsi di San Vittore non paga. A chiedere umanità e decenza nelle carceri ci sono soprattutto voci cattoliche, fra cui questo giornale, e, storicamente, i radicali.
Adesso a San Vittore in molti hanno iniziato uno sciopero della fame contro il sovraffollamento – ci sono 500 detenuti oltre il limite massimo. La notizia finirà in poche righe sui giornali. Continueremo, passando da lì, a guardare a quelle finestre con le sbarre come a un oscuro confine di Milano. Da questa parte si beve il cappuccino con i croissant in piazzale Baracca, e si comprano i costumi per il mare. Là, degli uomini si stringono in celle bollenti, e all’ora d’aria restano in un angolo, sperando di passarla liscia. Qualcuno magari pensa di ammazzarsi; come, a febbraio, un ragazzo di appena 21 anni.
Uomini e sottouomini. E Sant’Ambrogio appena laggiù in fondo; e il Palazzo di Giustizia a un quarto d’ora. Tutto così vicino – tutto così lontano.