Esclusiva. I guardacoste libici tentano di catturare 4 pescherecci. E l'Italia cede
«Anche se siete in acque internazionali, sapete benissimo qual è la situazione in atto». Una decina di parole bastano all’ufficiale della Marina Militare per strappare all’ipocrisia la verità sul Mediterraneo centrale. Perché a comandare nel Canale di Sicilia è Tripoli.
«Tornate a Nord, fate come ha ordinato la motovedetta libica», ordina via radio a quattro motopesca siciliani. Le comunicazioni radio ottenute da Avvenire, e pubblicate sul nostro sito internet, non lasciano spazio alla buona fede dei guardacoste tripolini e ai loro ufficiali a terra. Il fallito agguato ai pescatori è avvenuto venerdì, meno di una settimana dopo la visita di Giorgia Meloni a Tripoli, a cui l’Italia attraverso l’Eni ha promesso 8 miliardi di euro per nuove esplorazioni di idrocarburi e gas. Tre giorni dopo, appena lunedì, una nuova motovedetta costruita ad Adria (Rovigo) è stata regalata alle autorità di Tripoli. Alla cerimonia hanno partecipato anche il ministro dell’Interno Piantedosi e quello degli Esteri Tajani.
Solo l’intervento di una nave da guerra italiana ha scongiurato la cattura di quattro motopesca siciliani e del loro equipaggio. Le registrazioni delle comunicazioni descrivono tutti i rischi e tutta la drammaticità di quelle ore. Momenti drammatici quelli che adesso si possono ascoltare. I comandanti implorano via radio un intervento della Marina Militare, nome in codice “Lavinia”. E da questa l’ufficiale ribadisce di non spegnere i motori ma mollare tutto e dirigersi verso Nord, prima in “lento moto” e poi “avanti tutta”. Fino a quando sulla scena arriva sulla scena un elicottero da combattimento italiano, che punta sulla motovedetta costringendola ad allontanarsi di alcune bracciate di mare. I quattro natanti italiani sarebbero stati un bottino da esibire nelle trattative con Roma per la liberazione degli ostaggi. Disinteressandosi dei migranti che pure incrociavano poco lontano, la motovedetta si è spinta in direzione dei tre motopesca di Mazara del Vallo, il “Pegaso”, il “Giacomo Gancitano” e il “Twenty Three”, e uno di Pozzallo, il “Vincenzo Ruta”. La posizione indicata dagli strumenti di bordo e confermata dai segnalatori elettronici era esattamente a 80 miglia (circa 160 chilometri) dalle coste di Tripoli, come mostrano le rotte analizzate e ricostruite da “Radio Radicale”. In quelle acque internazionali dove spadroneggiano le milizie del mare armate dall’Italia e dall’Ue. E’ uno dei perversi effetti della desertificazione nel Mediterraneo. Per non soccorrere i migranti, i governi italiani dal 2017 in poi hanno sguarnito il Canale di Sicilia di navi militari, lasciando alla pirateria libica equipaggiata con natanti “Made in Italy” l’egemonia sull’intero tratto di mare.
La motovedetta libica, una classe Bigliani donata dall’Italia alcuni anni fa, che piomba addosso ai motopesca mentre gettavano le reti. A quel punto i libici danno l’ordine di spegnere i motori: “Off machine”, urlano più volte. Ma i comandanti dei pescherecci provano a resistere. Spegnere i motori vuol dire venire arrestati e portati nelle infernali gattabuie libiche per chissà quanto.
«Tutto è durato circa un’ora, con i libici che intimavano di fermare i motori, per far salire qualcuno di loro armato, e la Marina militare italiana che chiedeva di non farlo. I libici volevano portare le barche a Tripoli», spiega Matteo Ruta, armatore del motopesca di Pozzallo.
«La cosa più grave - prosegue Ruta - è che se è vero che la Marina militare ci ha dato assistenza, è altrettanto vero che ci ha fatti allontanare per altre 1520 miglia verso nord. Da 80 a oltre 100 miglia: una cosa eccessiva. C’è qualcosa che non va se delle vecchie motovedette non si fanno intimorire da una nave militare, forse - si domanda Ruta - altri interessi economici dell’Italia».
Da anni Tripoli rivendica pressoché l’intero quadrante marittimo dalle proprie coste al limitare di quelle di Malta e Lampedusa come «zona di pesca protetta». Nel 2005 era stato il colonnello Gheddafi a dichiarare unilateralmente la “proprietà” libica di quello specchio di mare in violazione di tutte le norme internazionali. Ma nonostante la caduta del regime gheddafiano e i copiosi investimenti italiani, Tripoli continua a non ce-dere, periodicamente aprendo la crisi della pesca per ottenere nuovi stanziamenti e accordi favorevoli al Paese. E da Roma, qualunque sia stato il colore dei governi, si è sempre ceduto al ricatto. Già il 18 aprile 2019 “Avvenire” aveva pubblicato alcune registrazioni nelle comunicazioni interne tra Italia e Tripoli che svelavano una serie di anomalie, con la centrale dei soccorsi di Roma che sembrava coordinare gli interventi delle motovedette libiche in mare. Anche in quella circostanza i militari riconoscevano la soverchieria dei colleghi libici. Ma anche allora arrivò la politica a smorzare i toni e mettere a tacere le rimostranze degli uomini in divisa. Anche stavolta, da Roma non è arrivato alcun commento.
All’arrivo nei rispettivi porti i pescatori siciliani non sono stati chiamati a deporre dall’autorità giudiziaria, a cui volentieri avrebbero raccontato l’ennesimo sopruso di Tripoli. « Probabilmente 108 giorni non sono bastati e ancora una volta, assistiamo al tentativo di sequestro, da parte delle vedette libiche, di pescherecci mazaresi. Mentre il nostro governo discute con le autorità libiche sulle problematiche che attanagliano il Mediterraneo, gli stessi libici tentano il sequestro», ha commentato Vito Gancitano, presidente del consiglio comunale di Mazara del Vallo. Nella città è ancora vivo il ricordo del lungo sequestro di 108 giorni a danno di 18 pescatori catturati nel 2020 e torturati dagli uomini del generale Haftar.
Perciò dagli equipaggi scampati al sequestro tentato venerdì viene una domanda: « Nei giorni passati la presidente del consiglio Meloni, insieme ai ministri Tajani e Piantedosi è stata a Tripoli: hanno parlato del nostro lavoro?».