Ddl Zan. «Cosa vuol dire identità di genere? Spiegate»
Non si possono inserire in una legge penale espressioni come «sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere» senza chiarirne il significato. Secondo il Comitato per la legislazione – l’organismo tecnico della Camera dei deputati che valuta omogeneità, semplicità, chiarezza e proprietà delle leggi in discussione – il testo del ddl Zan va formulato in modo diverso. Un richiamo formale per la commissione Giustizia della Camera dove da oggi riprende il dibattito degli emendamenti alla proposta di legge contro l’omofobia. Il relatore del parere, Giovanni Luca Aresta (M5s), fa notare che il provvedimento, nell’ampliare le fattispecie già previste dagli articoli 604-bis e 604-ter e introdurre forme di tutela penale contro gli atti discriminatori di ispirazione omofoba, «non introduce apposite definizioni ai fini dell’applicazione della legge», anche se fa riferimento a una terminologia già presente nella legislazione vigente. Secondo il Comitato per la legislazione «andrebbe approfondita la distinzione tra le discriminazioni fondate sul 'genere' e quelle sull’'identità di genere'». E, per chiarire meglio termini di ambito antropologico di cui è già stato segnalato anche su queste pagine il rischio indeterminatezza, si consiglia di far riferimento alla sentenza 180 del 2017 della Corte costituzionale.
Cosa dicono i giudici della Consulta in quel pronunciamento? Il tema riguardava un doppio caso già deciso dal Tribunale di Trento in cui due persone, un uomo e una donna, chiedevano separatamente un 'cambio di sesso'. Al termine di una lunga analisi, la Corte ribadiva «come l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto, costituisca senz’altro espressione del diritto al riconoscimento dell’identità di genere». Ma a quali concetti far riferimento per chiarire in modo concreto l’espressione 'identità di genere', neppure la Corte Costituzionale l’ha spiegato. Anzi, due righe sopra, richiamando una precedente sentenza del 2015, sottolineava che per determinare l’avvenuta «transizione dell’identità di genere», occorre escludere che «il solo elemento volontaristico possa rivestire prioritario o esclusivo rilievo».
Nel parere del Comitato per la legislazione si fa riferimento anche alla direttiva Ue 2.011 e alla raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa (2010) agli Stati membri sulle misure per combattere le discriminazioni in ragione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere. Ma siamo daccapo. Anche in questi documenti si parla di «identità di genere» ma non si propone una definizione che possa contribuire ad eliminare gli equivoci lessicali che, soprattutto in una legge penale, non hanno diritto di cittadinanza. Ma non è tutto. Nello stesso parere si fa riferimento ad altre imprecisioni contenute nel ddl Zan.
Tra le varie segnalazioni ce n’è una che non è solo formale. Si tratta dell’incremento di quattro milioni del Fondo per le pari opportunità che – osserva Aresta – «risulta analogo a quello dell’articolo 105-quater del decreto-legge n. 34 del 2020». Un’incongruenza sottolineata nei giorni scorsi anche del Centro Livatino. In pratica nel cosiddetto decreto Rilancio, adottato per far fronte alla situazione «straordinaria di necessità e urgenza» generata dall’emergenza Covid, sono stati ripresi alla lettera due articoli del ddl Zan. Ora, visto che questo decreto ha già forza di legge, appare sorprendente che la proposta contro le discriminazioni omofobe torni a proporre negli stessi termini un provvedimento già adottato. Non si tratterà probabilmente di un tentativo di 'frode parlamentare' – come sostiene il Centro Livatino – ma sicuramente di un cortocircuito che va risolto al più presto nella prospettiva della trasparenza e di quel «confronto autentico e intellettualmente onesto» già auspicato dalla presidenza Cei nel comunicato sul tema.