Coronavirus. Cosa possono fare i genitori e gli adulti per non allarmare i piccoli
Molte scuole del Nord Italia nei prossimi giorni resteranno chiuse e i bambini costretti a restare a casa con i genitori che devono necessariamente organizzarsi.
La situazione è strana, difficile e particolare.
Cosa fare? Cosa dire? Che atteggiamento tenere?
I genitori si pongono domande e non è sempre facile avere risposte scientifiche e comunque attendibili. È facile cadere nell’enfasi emotiva che non aiuta i più piccoli a vivere in questa inedita situazione.
Essere bambini vuol dire, a differenza dell’essere adolescenti, dipendere quasi totalmente dai genitori. È una condizione particolare che nel corso della vita non si ripeterà più. Pertanto la prima evidenza è che per qualsiasi vicenda i bambini e le bambine vivono gli stati emotivi dei loro genitori, sono estremamente permeabili alle loro ansie e paure, alle loro inquietudini.
Allo stesso tempo la presenza dei genitori è un elemento rassicurante; valgono ancora i famosi studi di Donal Winnicott: durante i bombardamenti tedeschi su Londra nella seconda Guerra Mondiale, quando i bambini meno traumatizzati furono quelli che restarono nei rifugi con i genitori piuttosto che quelli che furono allontanati dai genitori per andare in speciali strutture lontano dalla città.
Il genitore educativo è quello che mantiene una presenza senza che questa presenza assuma contorni allarmanti e ansiogeni.
I bambini vivono il restare in casa come un’esperienza ludica di vacanza. È importante che i genitori non li coinvolgano in discorsi fuori dalla loro portata o li espongano a informazioni televisive o digitali che sono di difficile gestione anche per gli stessi adulti specialmente quando compare il tema della morte (che a partire dal quinto anno di vita il bambino è in grado di cogliere e di comprendere come perdita definitiva).
Qualche genitore e insegnante, incautamente come già capitato per il Giorno della Memoria con bambini di 7, 8 e 9 anni, pretende di coinvolgerli come se fosse possibile a un soggetto con capacità cognitive e un pensiero reversibile molto scarso di cogliere la complessità della situazione. Si rischia solo di creare angoscia che poi i figli piccoli non sono in grado di rielaborare sul piano psicologico e cognitivo.
Fino a 6, 7 anni si può tranquillamente dire che per alcuni giorni i bambini non andranno a scuola, non è necessario spiegare in maniera dettagliata i motivi.
Per quelli più grandi, a partire dagli 8 anni quando il pensiero è un po’ più formato, si può segnalare la presenza di una malattia che dobbiamo evitare e quindi ognuno resta a casa sua.
Infine occorre fare attenzione anche all’eccesso di rassicurazioni, esiste una comunicazione diretta e una comunicazione subliminale. Spesso gli adulti finiscono col trasmettere le loro preoccupazioni quasi che tranquillizzare i bambini diventasse un modo per tranquillizzare se stessi.
Le comunicazioni dovrebbero essere molto asciutte e limitate, qual tanto che basta per dire ai più piccoli come sarà la loro vita: non andranno a scuola, staranno in casa, potranno fare dei giochi, fare un po’ di compiti, leggere ed eventualmente incontrare in casa altri bambini.
Insomma, in educazione è sempre meglio comunicare ai figli ciò che faranno o devono fare piuttosto che dare “spiegoni” eccessivi.
I bambini come sempre sono quelli che ce la fanno meglio di tutti.
Pedagogista, autore e direttore CPP