Coronavirus. Ma le industrie delle armi restano in funzione, «perché essenziali»
Le armi sono considerate una produzione essenziale anche ai tempi del Coronavirus. Nella foto, un F35: la sua produzione negli stabilimenti di Cameri, Novara, non si fermerà nemmeno per qualche giorno. Ogni cacciabombardiere costa circa 150 milioni di euro, 400 mila il casco di un pilota
«In guerra contro un nemico infido». «I medici in prima linea». «La trincea degli ospedali». In tempi di pandemia le metafore belliche tracimano da tg e discorsi pubblici. In un Paese che si è scoperto disarmato, di fronte a un invasore che sta facendo stragi. Secondo Rete della Pace e Rete Italiana per il Disarmo anche perché la sanità «in 10 anni è stata definanziata per 37 miliardi di euro». La spesa sanitaria negli ultimi anni si è «ridotta dal 7% del Pil al 6,5», mentre la spesa militare «è cresciuta dall’1,25% del 2006 all’1,43% previsto per il 2020, pari a 26 miliardi». Il confronto tra sanità e difesa - su dati di Fondazione Gimbe e Osservatorio Milex - pone con forza il problema alla politica.
«Si ferma l’economia civile, ma quella incivile continua a lavorare», è la riflessione lanciata con una lettera aperta a governo, Parlamento e sindaci da Scuola di Economia civile, Banca Etica, Pax Christi, Movimento dei Focolari, Mosaico di Pace. «Il governo ha deciso lo stop delle industrie, tranne quelle essenziali». Tra cui, è stabilito, «quelle dell’industria dell’aerospazio e della difesa».
Dunque «continuerà la produzione degli F-35 a Cameri (Novara)» quando col costo di un aereo, «circa 150 milioni, quanti respiratori si potrebbero acquistare?». I firmatari concordano con «quanto già denunciato da Sbilanciamoci, Rete della Pace e Rete Italiana per il Disarmo: si chiede ai cittadini di vivere nell’incertezza per il proprio lavoro, ma si consente alle fabbriche di armi di continuare a lavorare senza sosta».
E dalla maggioranza arriva un segnale. Per il senatore Gianluca Ferrara (M5s) «è il momento di riconsiderare la scala delle nostre priorità collettive, che oggi non è nel continuare a produrre aerei da guerra e altri strumenti di morte». Eppure, si ferma quasi tutto ma non le fabbriche di armamenti dove fra l’altro – dice – «si sono già registrati casi di contagio». Un’eccezione, sostiene, «che risponde alle pressioni della lobby delle armi». Questa emergenza – conclude il senatore – rivoluziona il concetto stesso di "difesa"» in un Paese che «spende 5,4 miliardi l’anno in nuovi armamenti, solo per gli F-35 quest’anno circa 860 milioni».
Un tema sollevato anche dal vescovo presidente di Pax Christi, Giovanni Ricchiuti: «Quanti posti letto potremmo realizzare con un solo giorno di spese militari, pari a 68 milioni? Quanti respiratori con un F-35? O con un solo casco del pilota che costa 400 mila euro?». Giorgio Beretta, ricercatore dell’Opal di Brescia, l’osservatorio sulle armi, pone il problema della riconversione: «In Italia sono 231 le imprese produttrici di armi e munizioni, rispettivamente 107 e 124. Una sola, la Siare Engineering, produce ventilatori polmonari. Siamo fortemente dipendenti dall’estero per macchinari vitali. Ma nel 2006 la Regione Lombardia affossò definitivamente l’Agenzia regionale per la riconversione dell’industria bellica istituita nel 1994».