Non c'è solo il sovraffollamento fra le priorità urgenti per le carceri italiane ma anche il riuscire a garantire adeguata attenzione alla salute-fisica e psicologica - di chi vive negli istituti di pena: oltre 66.600 persone di cui 24mila stranieri, secondo i dati più aggiornati. La tutela della salute e i necessari interventi per la 'cura della persona' nelle carceri, sono stati al centro della giornata di studio organizzata oggi dall'Ufficio Nazionale per la pastorale della sanità della Cei, con la partecipazione di dirigenti dell'amministrazione penitenziaria, medici, psichiatri, psicologi, esponenti del Parlamento, del volontariato e religiosi impegnati nel campo della salute e delle carceri. Sono intervenuti, fra gli altri, il capo del DAP, Giovanni Tamburino, il direttore di Rebibbia, Carmelo Cantone, il direttore sanitario di Regina Coeli Andrea Franceschini, il responsabile per la pastorale della salute del Triveneto, mons. Dino Pistolato, l'ispettore generale dei cappellani delle carceri Italiane, don Virgilio Balducchi, i cappellani di Regina Coeli e di Rebibbia, esponenti della Caritas, della Comunità di Sant'Egidio, delle Missionarie Scalabriniane, il coordinatore delle associazioni di volontariato senatore Roberto Di Giovan Paolo e mons. Andrea Manto, direttore dell'Ufficio nazionale per la pastorale sanitaria della Cei.L'iniziativa intitolata "Salute e carcere: quale pastorale", nasce nell'ambito dei lavori della Consulta dell'Ufficio nazionale per la pastorale della sanità, per avviare un percorso di riflessione a quattro anni dal trasferimento alle Regioni la competenza sanitaria sulle carceri. Tutto ciò con particolare attenzione alla dignità dei soggetti coinvolti, all'accompagnamento pastorale, al rapporto tra carcere, territorio e comunità cristiana ed a eventi di stretta attualità quali l'imminente chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari.
TAMBURINO: UMANIZZARE IL CARCERE, LA PENA COMPORTA SOFFERENZA E MALATTIARispetto alla condizione dei detenuti ci sono "problemi irrisolti e in parte non risolvibili" e questa dimensione va tenuta in considerazione "come premessa a ogni riflessione concreta che porti a passa in avanti", poiché "la risposta afflittiva, anche non violenta come è inteso storicamente il carcere, pur non essendo una pena corporale in senso tecnico è una pena che tocca anche il corpo". Parte da questa premessa il capo dell'Amministrazione Penitenziaria nell'illustrare ad un seminario promosso dall'Ufficio Nazionale per la pastorale della Sanità della Cei, le risposte che l'amministrazione può dare per migliorare la condizione di salute delle persone in carcere."Ogni pena comporta offesa, malessere e quindi malattia" ha detto Tamburino, spiegando come, pur nel completo passaggio al Servizio Sanitario Nazionale, e quindi alle Regioni, della medicina penitenziaria, il Dap avrà sempre un ruolo di "collaborazione e integrazione", in ragione della specificità della comunità-carcere.Secondo Tamburino, "è impossibile dire" se a partire dal 2008, quando è partito il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale della sanità carceraria, ci sia stato "un miglioramento o un peggioramento", perché "ci sono differenze geografiche notevoli, laddove prima nelle carceri c'era maggiore omogeneità", inoltre "oggi la situazione è profondamente cambiata" a causa del sovraffollamento e del conseguente ritorno di nuove malattie da contatto. In ogni caso, ha detto Tamburino, "è necessario un carcere più salubre, partendo da alcune variabili sulle quali un'operatività è possibile: il sovraffollamento; gli operatori; il lavoro, che oggi è del tutto insufficiente, mentre potrebbe essere strumento di benessere psicologico". È infine necessario "un clima di umanizzazione", e quindi "la polizia penitenziaria dovrebbe spostare l'asse", a partire dall'addestramento, per essere "meno polizia e più operatore del rapporto umano".