Forse il segretario della Uil Carmelo Barbagallo ha esagerato un po’ ieri pomeriggio commentando le dichiarazioni del ministro Padoan sulle pensioni: «Un’apertura? Non è nemmeno un oblò». Ma forse il sindacalista non è andato così lontano dalla verità, almeno ad ascoltare le cautele sul caso che arrivano dal ministero dell’Economia. I margini di intervento per modificare la legge Fornero sono stretti, il debito pubblico resta alto come una montagna e l’Europa deve dare ancora il via libera alla manovra sul 2016, figurarsi alle pensioni flessibili nel 2017. È proprio il problema delle risorse che ha impedito finora all’esecutivo di passare dalle parole ai fatti. Il famoso discorso di Matteo Renzi sulla nonna che si potrà prendere cura del nipotino è di un anno fa. Ma da allora l’unica novità è stato il varo del
part time agevolato in uscita al quale potranno accedere, se in accordo con l’azienda, non più di 20-30mila lavoratori (e paradossalmente poche «nonne» lavoratrici). Potrebbe essere un primo passo verso soluzioni di staffetta generazionale se il part time fosse affiancato dall’assunzione di un giovane, magari incentivata. Ma quali sono le altre possibili via d’uscita da un
impasse che oggi costringe quasi tutti al lavoro fin quasi a 67 anni e ostacola l’ingresso dei giovani? E quali i costi? Il sottosegretario Tommaso Nannicini, uno dei principali consiglieri economici di Renzi, ieri ha spiegato che un intervento sulla flessibilità potrebbe costare «intorno ai 5-7 miliardi» se interamente a cari- co della finanza pubblica e «a seconda della penalizzazione economica che subirebbe il lavoratore» che anticipa il pensionamento. Una cifra che non è oggi alla portata del bilancio italiano. L’economista ha parlato di «uno sforzo di creatività» per elaborare una proposta dove «accanto all’impegno pubblico vi siano soluzioni di mercato». E lo stesso Padoan ha detto che si può ragionare su «fonti di finanziamento complementari». Un’ipotesi è quella del prestito pensionistico, con una partecipazione del sistema bancario che sposterebbe parte dello sforzo finanziario fuori dalla contabilità pubblica. «Proposta che al momento non esiste, ma è un tema che suscita molta curiosità», ha detto Nannicini. In realtà questo dossier non sta a zero perché vi aveva lavorato l’ex ministro del Welfare Enrico Giovannini (governo Letta). In questo schema finanziatori privati contribuiscono alle uscite anticipate, insieme alle aziende. Negli anni che mancano alla pensione il lavoratore riceve una somma che poi restituisce a rate negli anni successivi. Facendo i conti delle serva, se un lavoratore riceve anticipatamente, poniamo, mille euro al mese per uscire tre anni prima, alla fine dovrebbe restituirne circa 40mila, somma che nel caso di una restituzione in 15 anni vale oltre 200 euro mensili, una penalizzazione forte, senza l’aiuto pubblico, per molti pensionati. Inoltre nel conto ci sarebbero da considerare le spese per gli interessi e per i contributi mancanti. Il sottosegretario ha parlato di un possibile mix di misure, differenziate in base alle esigenze: se è l’azienda che vuole ridurre personale, se è il lavoratore che sceglie liberamente di lasciare prima o ha invece bisogno di approdare alla pensione. L’uscita anticipata con penalizzazioni è il perno delle proposte presentate dal presidente della Commissione Lavoro Cesare Damiano (2% per ogni anno, con anticipo fino a 4 anni) e da quella del presidente dell’Inps Tito Boeri (3% l’anno per non più di tre anni). Nel medio periodo la minor spesa unitaria per le pensioni andrebbe a compensare il maggiore numero di assegni pagati. Ma nell’immediato questi interventi costano. La soluzione Boeri, la meno onerosa per lo Stato (prevede anche un contributo sulle pensioni d’oro) costerebbe sui 3 miliardi l’anno. Una cifra non enorme ma comunque significativa per un governo che punta pure a tagliare le tasse. Inoltre va verificato se una penalizzazione del 3-4% sia praticabile per molti lavoratori, che perderebbero il 10-12% della rendita uscendo a 63-64 anni. Un apporto finanziario potrebbe arrivare poi da un maggior ruolo dei fondi pensione integrativi, ai quali oggi solo il 30% degli occupati è iscritto. Un secondo pilastro che il governo vorrebbe ora rafforzare, dopo avere lo scorso anno aumentato la tassazione, anche riorientandone la missione.