Politica. Il referendum mette sotto pressione Conte e gli alleati
Non è ancora arrivata la data simbolica del 1° settembre. Ma da cosa sarà segnata la ripresa politica, Giuseppe Conte già l’ha capito. La situazione della maggioranza è plastica: tutti o quasi con mezzo piedino fuori dal carro del governo, in attesa delle Regionali e, ora, anche del referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari, il cui significato politico è cresciuto a dismisura nelle ultime ore.
Con il «no» messo nero su bianco da Romano Prodi sul Messaggero - un no problematico, ma nella sostanza una inattesa indicazione di voto negativo - si completa l’accerchiamento intorno al segretario del Pd, Nicola Zingaretti, in attesa della Direzione nazionale prevista nei prossimi giorni. Il leader dem propende per il sì e sa che il sentimento popolare va ancora, per il momento, in questa direzione. Ma sente crescere l’onda del «no» e la sente crescere proprio nel corpaccione del suo partito.
Un bel problema, su cui però il segretario sta cercando di fare leva per strappare a M5s un voto in Commissione a stretto giro sulla legge elettorale, di modo da riequilibrare i rapporti di forza con l’alleato pentastellato prima delle Regionali. La novità delle ultime ore è che non solo Luigi Di Maio, ma anche Giuseppe Conte si sarebbe messo attivamente a mediare per un accordo in Commissione sul sistema di voto per andare in soccorso dell’alleato dem in difficoltà.
Il punto è che non è detto che accordarsi su un testo elettorale basti a evitare il peggio. Ieri il leader di Iv Matteo Renzi ha riaperto il dialogo con Pd e 5s dopo averlo stroncato a giugno: per lui si può tornare a parlare di proporzionale ma purché sia inserito in un accordo di riforme «vere» - spiega in un’intervista a Repubblica -. Per riforme vere, l’ex premier intende un sistema tedesco con monocameraliasmo e sfiducia costruttiva per contemperare l’effetto "Prima Repubblica" del proporzionale puro (seppure con soglia di sbarramento).
Ma se le riforme autentiche sono quelle ancora da costruire, vuol dire che per Renzi quella che andrà al voto il 20-21 settembre non è sufficiente. E infatti il leader Iv ufficializza una libertà di coscienza che profuma di «no». E alza il tiro sul governo e su Conte, che per andare avanti deve essere «un esecutivo politico forte» o «si farà strada l’ipotesi di un governo tecnico». Un esecutivo che - se l’attuale governo non trova una rotta univoca - accetti il Mes, apra la strada a riforme con le opposizioni e gestisca i 200 miliardi del Recovery fund a fronte di «tempi durissimi».
Il premier non può averla presa bene. E ha ben inteso anche il senso del ritorno in campagna elettorale di Berlusconi. «La nostra vittoria sarà un avviso di sfratto al governo», dice il leader di Forza Italia parlando a sostegno di Raffaele Fitto in Puglia. Insomma c’è aria di accerchiamento. Ma non è la prima volta che Conte si trova in questa situazione. Motivo per cui il premier non replica e fa trapelare un unico concetto: il lavoro senza tregua per aprire le scuole e l’accelerazione sul Piano di ricostruzione italiano da presentare in Ue entro il 15 ottobre.
In tutte le situazioni di crisi del Conte I e del Conte II, l’avvocato ha trovato appiglio nella partita europea e nel saldo ancoraggio ai numeri-monstre in Parlamento del partito che l’ha indicato, M5s. Così proverà a muoversi anche stavolta. Con una variabile, però: che un cattivo risultato alle Regionali del Movimento possa portare a una scissione in M5s e a nuovi equilibri parlamentari. Quelli, appunto, funzionali ad un esecutivo tecnico.
La sensazione però è che tutta questa pressione abbia un obiettivo velato, arrivare ad un rimpasto dopo le Regionali. Rivelatore il duro affondo del capogruppo dem al Senato Andrea Marcucci contro la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, sinora blindata da Palazzo Chigi e M5s. Conte per ora resiste. Ma c’è consapevolezza che dal 21 settembre molte cose potrebbero cambiare.