Le motivazioni della sentenza. Consulta: la prostituzione non è mai libertà
La libertà sessuale è un diritto e ricade nell’articolo 2 della Costituzione, che tutela i «diritti inviolabili dell’uomo». Ma da qui a sostenere che la prostituzione è un esercizio di quella libertà, ce ne passa. Al contrario, la scelta di «vendere sesso» è quasi sempre «determinata da fattori che limitano e condizionano la libertà di autodeterminazione dell’individuo ». Sono principi importanti, quelli contenuti nelle motivazioni, rese pubbliche ieri, con le quali la Corte Costituzionale lo scorso 5 marzo ha ribadito che la Legge Merlin 61 anni dopo ha ancora ragione: «agevolare» la prostituzione, anche quando questa sembraesercitata consapevolmente e in piena libertà, resta un reato.
La Consulta aveva così rigettato un ricorso di legittimità avanzato dalla Corte d’appello di Bari nel corso del processo sulla vicenda delle cosiddette escort presentate nel 2008-2009 all’allora premier Silvio Berlusconi dall’imprenditore Gianpaolo Tarantini. La domanda dei giudici d’appello, in estrema sintesi, era: quando la scelta di prostituirsi è esercizio di libertà sessuale, perché deve essere accusato di favoreggiamento chi la «agevola»? Ancora: poiché oggi esiste la figura della escort – non immaginabile ai tempi della senatrice Merlin –, perché chi mette in contatto queste «professioniste » con i clienti deve essere accusato di reclutamento della prostituzione? Ieri la Corte Costituzionale ha diffuso i motivi del rigetto del ricorso barese: anche se la scelta «appare inizialmente libera», essa conduce spesso in un «circuito dal quale sarà difficile uscire volontariamente» e comunque si tratta di una scelta che mette a rischio l’integrità fisica e la salute delle donne.
È un giudizio di valore, quello della Corte Costituzionale, che si mette sulla scia della Legge Merlin, oggi sotto attacco su più fronti, laddove scrive che «il legislatore (la stessa Merlin, ndr) ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, un’attività che degrada e svilisce la persona».
E proprio per questo non consente la «collaborazione » di terzi a qualunque titolo, visto che «la libertà di iniziativa economica privata è protetta dall’articolo 41 della Costituzione solo in quanto non comprometta valori preminenti, quali la sicurezza, la libertà e la dignità umana». La Consulta, insomma, dà ragione al vasto movimento abolizionista, sorretto dall’impegno di un numero crescente di «sopravvissute », che in ogni parte del mondo sostengono che la prostituzione non è mai scelta libera, ma è sempre degrado, sopraffazione e violenza.
A leggere altri passaggi delle motivazioni della Consulta resta però l’amaro in bocca, come se il traguardo fosse stato mancato per un soffio: la persona che si prostituisce è sì riconosciuta come «il soggetto debole del rapporto » e per questo si è scelto di non punire lei bensì «i terzi che si intromettono nella sua attività», ma resta il fatto che si tratta di «una 'prestazione di servizio' per conseguire un profitto». Il concetto (fuorviante) di «sex work», insomma, rientra dalla finestra dopo essere uscito dalla porta.