Nel serrato dibattito sull’assetto giuridico delle unioni civili c’è indubbiamente una parte 'debole' da tutelare: i bambini. E almeno su questo sembrano tutti d’accordo. È ciò che si evince dalla lettura dell’appello – «Unioni gay: i bambini, innanzitutto» – assolutamente favorevole all’adozione del figlio da parte del partner del genitore biologico (la cosiddetta
stepchild adoption), promosso dagli animatori del portale di studi di diritto «Articolo 29-Famiglia, orientamento sessuale, identità di genere» e firmato da 230 tra magistrati, giuristi e avvocati. «Se è finalmente chiaro che prima di ogni altro diritto vero o presunto viene l’interesse del minore, il problema è mettersi d’accordo su quale sia. E qui le differenze di approccio generano risposte antitetiche». È la preoccupata constatazione del costituzionalista Filippo Vari, che esprime più di una riserva sulla soluzione individuata nel testo, fatto circolare online e rilanciato ieri sui media come la voce dei «giuristi », senza alcuna aggettivazione.
Come si supera il disaccordo sull’interpretazione dell’interesse del minore? «La giurisprudenza costituzionale non contempla il 'diritto all’adozione' ma parla del diritto del bambino a essere inserito e a crescere in una famiglia. E il presupposto del nostro ordinamento, come di tutti i pronunciamenti della Consulta in materia, è che la famiglia sia quella riconosciuta dall’articolo 29 della Costituzione: fondata sul vincolo matrimoniale e dunque su un padre e una madre. Questa è la ragione per cui la Corte costituzionale non ha mai ammesso, come regola, le adozioni da parte dei single. Ed è questo il criterio col quale va sciolto il nodo della
stepchild adoption ».
Per sostenere il diritto del convivente dello stesso sesso ad adottare si sostiene che questo garantisce la «continuità della responsabilità genitoriale». Cosa replica? «Il nostro ordinamento su situazioni analoghe a queste è già sufficientemente preciso, disponendo garanzie adeguate per i casi drammatici in cui il bambino resti senza genitori. È sempre stato chiaro e condiviso il principio per cui in assenza di uno dei genitori è interesse del minore restare con l’altro genitore biologico. Ma questioni come quella delle unioni civili non possono essere utilizzate per far passare una soluzione nuova, di fatto rendendo genitore anche il convivente e dando a un bambino due padri o due madri».
Ma si dice che le unioni civili siano un istituto diverso rispetto alle nozze... «Attraverso l’adozione del figlio del partner di fatto verrebbero assimilate al matrimonio garantito dalla Carta costituzionale. Si tratta peraltro di una soluzione ipotizzata per casi particolari, sebbene si senta dire il contrario. Una norma non può essere calibrata sull’eccezione, il suo parametro dev’essere l’id
quod plerumque accidit, e cioè l’ordinarietà. Mai va dimenticato invece che interesse indiscutibile del bambino è crescere con un papà e una mamma: la stessa legge che in Italia regola l’adozione non a caso è intitolata 'Diritto del minore a una famiglia'».
Lei dunque vede una forzatura giuridica nella «stepchild adoption»? Un modo per cambiare il profilo stesso della famiglia? «Constato che per attribuire al convivente lo status di padre o di madre del figlio del partner dello stesso sesso lo si rende genitore con un atto giuridico che ha la conseguenza di dare al minore due papà o due mamme. La Corte Costituzionale nel 2010 ha parlato della necessità di trattare le coppie dello stesso sesso come formazioni sociali ma non come unioni coniugali, lasciando a queste una specificità e unicità poi confermata da altre sentenze successive. Invece introducendo la
stepchild adoption si finisce per produrre una vera e propria equiparazione. Non dimentichiamo che una volta posta questa premessa la giurisprudenza della Corte europea non tarderebbe a richiedere una piena parificazione dei due istituti, che si dice invece di voler far nascere radicalmente diversi».
Come impedire che venga legalizzata di fatto anche la maternità surrogata? «Sul piano del diritto interno, mantenendo fermo il divieto vigente e facendo tutto il possibile per farlo rispettare. Ma in un mondo globalizzato è indispensabile che si agisca sul piano del diritto internazionale. È il momento che l’Italia assuma un’iniziativa nelle istituzioni sovranazionali per arrivare a un bando di questa pratica che umilia la donna».