La scuola per Giulia. Amore vero, dolore, speranza. Dieci lezioni per Rachid
Eraldo Affinati
Un messaggio dirompente. Che invece di cadere in luoghi comuni, o in sterili accuse e rivendicazioni personali, ha chiamato in causa tutti gli attori istituzionali alzando l’asticella del dibattito sulla violenza di genere a un piano educativo e sociale. Chiedendo un impegno fattivo comune. Il discorso pronunciato dal papà di Giulia Cecchettin ai funerali della figlia ha fatto il giro d’Italia.
Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara – raccogliendo una proposta del governatore del Veneto Luca Zaia – ha chiesto che il testo sia inviato alle scuole di tutto il Paese perché i docenti ne possano discutere coi propri studenti. Ma come e perché le parole di questo padre, assieme alla vicenda potente di Giulia, possono essere utilizzate in classe? Da dove partire e ripartire, dopo tanto orrore e tanta disperazione? Lo abbiamo chiesto a tre insegnanti: Eraldo Affinati, Marco Erba, Elena Ugolini.
Ieri pomeriggio, raccontando a Rachid l’omicidio di Giulia Cecchettin, ho individuato per lui dieci punti ricavati dal discorso che il padre della vittima, il signor Gino, ha letto al funerale. Il giovane migrante bengalese era interessato all’evento di cui aveva appreso nel centro di accoglienza dove alloggia, infatti mi ascoltava attento, anche perché il suo Paese, per quanto riguarda l’uguglianza di genere, deve compiere ancora un lungo percorso, sebbene il mio scolaro, citando le ex presidenti del consiglio, Sheikh Hasina Waze e Khaleda Zia, abbia voluto sottolineare che molto sia stato già fatto.
Il primo tema, gli ho detto, è legato alla condivisione del dolore: serve a Gino nel tentativo di scaricare un po’ del tremendo peso che deve portare sulle spalle insieme a Elena e Davide, gli altri due figli, ma può essere utile anche a tutti noi, se vogliamo comprendere la dimensione sociale del misfatto. Non ci si può salvare da soli, ho sottolineato: su questo Rachid era d’accordo.
Il secondo argomento, suffragato dalla poesia di Gibran citata, si riferisce alla natura del vero amore, che non dovrebbe mai ridursi alla brama di possesso della persona desiderata. Bello da dire, ha commentato Rachid, ma poi bisogna imparare a farlo. Troppo spesso, lo sappiamo, gli istinti brutali prevalgono.
La terza questione scaturita dal discorso interpella la sensibilità di ognuno di noi: nessuno deve sentirsi escluso dalla tragedia accaduta. In certi Paesi sarebbe inconcepibile per una donna denunciare un familiare violento. Ma in fondo anche nel Vecchio Continente esistono omissioni di soccorso che, moralmente, potrebbero addirittura equivalere al reato.
Il quarto concetto tende a ridefinire il ruolo del maschio, chiamato a comprendere e intervenire ogni qual volta vede o percepisce il rischio di una violenza nei confronti della donna. Gli occhi di Rachid si stringevano mentre glielo spiegavo: come se stentasse a credere che tale auspicio potesse realizzarsi davvero.
Il quinto elemento indica la necessità di accettare la sconfitta: è questo l’unico modo per evitare che, rimuovendola, essa riemerga trasfigurata nella frustrazione e nella vendetta. Il mio allievo aveva sollevato la testa dal foglio: quello di cui stavamo discutendo non era più soltanto scuola, ma diventava vita.
Il sesto principio riguarda la solitudine tecnologica a cui ci costringe l’età contemporanea: dobbiamo integrare la connessione digitale con l’esperienza concreta della relazione di qualità. Come non rendersene conto? Basta osservarci quando siamo in metropolitana: quasi non ci guardiamo più in faccia, tutta la nostra attenzione è rivolta allo schermo del cellulare.
La settima indicazione emersa dalla prolusione pone al centro l’istruzione pubblica: luogo essenziale di resistenza etica e formazione umana e democratica dei futuri cittadini.
L’ottava suggestione ci spinge a superare le bandiere identitarie: di fronte al femminicidio le forza politiche devono superare ogni contrapposizione, trovando insieme il terreno comune, legislativo e culturale, in cui intervenire, nella difesa del bene comune. Qui ho potuto fare un po’ di filosofia del diritto: se non ci fosse il precetto da rispettare, ci sarebbe la sopraffazione del forte nei confronti del debole. Forse Rachid non ha compreso appieno questa notazione, ma se qualcosa gli fosse rimasto in testa, sarei già più che soddisfatto.
Il nono pensiero si concentra sugli estinti, simbolicamente rappresentati da Giulia, insieme alla madre scomparsa appena un anno fa, nella “celeste corrispondenza d’amorosi sensi” fra vivi e morti di cui scrisse Ugo Foscolo.
La decima considerazione che gli ho sottoposto prende spunto dalla frase: «Io non so pregare, ma so sperare». Avrei voluto dire a quest’uomo affranto che la speranza può essere, se noi lo vogliamo, una forma di preghiera. Lo pensava Dante Alighieri quando, nel XXIV canto del Paradiso, scriveva: «Fede è sustanza di cose sperate / e argomento de le non parventi, / e questa pare a me sua quiditate».