Come San Giuseppe. «Abbiamo avuto quasi 80 figli. La paternità? Dare un legame»
Giancarlo e Marina Violetto (secondo e terza in piedi) con alcuni dei loro figli naturali e in affido
Con la Lettera apostolica "Patris corde - Con cuore di Padre", il Papa ha indetto l’8 dicembre 2020, fino alla stessa data del 2021, uno speciale Anno dedicato a san Giuseppe, padre putativo di Gesù. San Giuseppe, ha spiegato Francesco, ricorda «l’importanza delle persone comuni, quelle che, lontane dalla ribalta, esercitano ogni giorno pazienza e infondono speranza, seminando corresponsabilità». Con l’articolo di oggi, "Avvenire" propone un breve viaggio tra alcune figure esemplari di "padri putativi", persone che nell’epoca dell’indebolimento della figura paterna hanno saputo accogliere e assumere in prima persona, con coraggio e fiducia, una responsabilità genitoriale ampia e aperta agli altri.
La paternità ha un preciso inizio, che non corrisponde con la nascita di un figlio. «La paternità comincia nel momento stesso in cui abbiamo scelto di essere marito e moglie. Da credenti, quello che abbiamo chiesto nel giorno in cui ci siamo sposati è di avere la grazia di vivere una paternità, e quindi anche una maternità, aperta alle persone che una famiglia non ce l’hanno». Così nella casa di Giancarlo Violetto, 57 anni, marito di Marina, di "persone" ne sono passate quasi 80 dal 1992, l’anno in cui «davanti al prete il sì non lo abbiamo detto uno all’altra, ma a una terza persona che si chiama Cristo. Questa è stata la scelta che abbiamo fatto insieme. Da cui poi sono venute tutte le altre».
Si respira aria di grande normalità in casa Violetto, campagna veneta a due passi da Cittadella, una delle case-famiglia della "Comunità Papa Giovanni XXIII" fondata da don Oreste Benzi. Si studia e si lavora, si ride e si fatica, si fanno torte e si litiga esattamente come in ogni famiglia. Solo che le stanze sono tante e nel via vai di figli è sempre difficile, per chi viene da fuori, capire quale è "di pancia" e quale "di cuore", che nell’alfabeto familiare significa nato da loro o arrivato in affido. Così nel 1993, a un anno dal matrimonio, è nato Flavio, il loro primogenito, ma subito dopo «hanno cominciato ad arrivare gli altri figli», racconta Giancarlo, di professione giardiniere. Già la tempistica non è scontata, «ma da subito avevamo impostato la nostra famiglia in tal senso: "prima ci sono le persone, poi tutto il resto". Questo si traduce in scelte concrete, Marina è rimasta a casa dal lavoro, poi invece l’ho fatto io quando sono arrivati figli che richiedevano assistenza 24 ore e la notte la reggevo meglio io».
Soprattutto è arrivata Mariangela, 14 anni fa, una bimba abortita al quinto mese di gravidanza ma poi sopravvissuta all’aborto e nuovamente rifiutata dai genitori biologici («non se la sentivano di accoglierla», detto nella lingua mai giudicante dei Violetto). È stata lei a chiedere un passo in più alla paternità di Giancarlo: «Mariangela è stata il nostro lockdown», sorride il padre, «non si va in cima agli alberi con la motosega dopo notti insonni, così sono rimasto a casa. Altra scelta non scontata, certo, ma che ha seguìto la scelta di fondo detta sopra: la paternità responsabile pretende che tu metta prima le persone e poi tutto il resto». Un lockdown duro, quello imposto da Mariangela, perché «ti costringe a fermarti, stando di fronte a te stesso. L’essere umano corre, corre per non pensare alla vita e alle paure apparentemente insormontabili, ma i figli come Mariangela ti bloccano al loro capezzale e allora devi fare verità dentro di te. Questi piccoli non ti danno soluzioni, pur senza parlare ti pongono le giuste domande, funziona come con la fede, che non dà soluzione altrimenti non sarebbe fede».
Che sia un’accoglienza "estrema" come quella di Mariangela (morta nel 2011 dopo 5 anni di zero parole e grandi sorrisi) o di Maria (salita al Cielo cinque mesi fa dopo 7 anni anche lei di silenzi e abbracci), o che invece sia un affido più "leggero", la paternità aperta all’accoglienza richiede una decisione complicata, essere disposto a cambiare. «Ogni persona che arriva in famiglia ti richiede un cambiamento, anche quando sono figli tuoi», precisa Giancarlo, «e questo cambiamento sta alla base di qualcosa che si chiama conversione. Non è un moto che parte da noi, altrimenti non riusciremmo a scalzare le sicurezze che ci siamo costruiti attorno, il cambiamento arriva da loro. Per me è stata una grazia essere padre di tante persone, proprio a cominciare da quelle che il mondo ritiene scarti, che sono lì e non ti parlano, ma ti costringono a starci e a meditare sul senso della vita». Anche socialmente non è semplice, specie nel mondo attuale, «c’è la reputazione», sorride ancora Violetto, e allora «quando la maestra a scuola ha chiesto a Matteo che mestiere faccio e lui ha risposto "il padre di casa-famiglia", era un po’ come dire disoccupato, di fronte al mondo non è un lavoro. Così ora sui social mi diverto e scrivo casalingo».
Un ulteriore passaggio arduo nella "paternità responsabile", anche perché – e rispetto al resto è un dettaglio – «noi della Comunità non siamo retribuiti, non mettiamo via i contributi e non ci sarà garantita una pensione. Non reggerebbe il bilancio della Papa Giovanni se i fondi andassero a noi anziché a migliaia di persone che accogliamo». E allora? «E allora esiste una cosa che chiamiamo Provvidenza e alla quale pensiamo di affidarci, oltre al fatto che se siamo Comunità non saremo mai soli». Già, ma come la vivono i suoi figli naturali (dopo Flavio sono nati Sofia e Matteo) una paternità così diversa? È questo il modello che propone loro? «Certo, altrimenti resta solo il famoso esempio che un padre deve dare. L’esempio non basta, molto prima occorre dare una motivazione per la quale valga la pena vivere da onesti, poi la scelta sarà loro». L’esempio del tipo «guarda tuo padre com’è bravo, devi fare come lui» non rende se dietro non c’è molto di più, perché – analizza realisticamente Giancarlo – il mondo dimostra che il giusto resta ai margini e il furbo ha successo. «Se non do a mio figlio niente cui aggrapparsi e dire "sì, nonostante tutto vale la pena", non funziona. Credo che il ruolo paterno vada proprio in questa direzione».
In casa-famiglia sono arrivati neonati e anziani, si chiama accoglienza di multiutenza. La persona più piccola è arrivata direttamente dalle braccia della madre che l’aveva appena partorita, la più anziana aveva 96 anni ed è stata la nonna di famiglia. Orfani o abbandonati, sfruttati o scartati, ragazzine madri in fuga con il loro bambino, «ciò che chiedono è sempre accudimento. Questo ti dicono, anche senza parlare: io sto male perché non appartengo a nessuno». Paternità, dunque, è anche attribuire un’appartenenza, un legame senza il quale nessun adolescente fa lo scatto per realizzare la propria persona. È proprio questo che distingue l’istituto dalla casa-famiglia, «la differenza tra addestramento e attaccamento, che è relazione profonda». Tra mille fallimenti, difetti e difficoltà, sia chiaro: qui non ci sono santi ma persone che faticano. «Questi figli di solito appena arrivano sono bravissimi, splendidi – precisa – ma stanno recitando. Dopo un mese le dinamiche familiari tirano giù tutte le maschere ed è allora che ti mettono alla prova, e questo è un loro diritto: vuoi farmi da padre?, allora vediamo se sei in grado».
Ma in questa lunga esperienza, i ruoli paterno e materno sono interscambiabili o hanno una loro specificità? «La paternità e la maternità esistono in entrambe le figure», ovvero una madre porta in sé anche una parte di paternità e idem fa un padre, «detto questo, però, c’è una diversità che è palese e una complementarietà che è necessaria». L’equivoco corrente è che la paternità sia una maternità col pugno di ferro, «niente di più sbagliato – commenta – semmai la maternità (non solo della madre) sviluppa protezione, la paternità (non solo del padre) tende alla crescita... che poi è il dilemma dell’assenza del padre nella società di oggi». Automatico chiedersi se la sua paternità sia diversa tra i tre figli naturali e quelli accolti. «Io posso dire che tutti quelli passati di qua li ho sentiti miei figli esattamente come gli altri tre, ma questo non è automatico, è frutto di un duro lavoro. Quando arrivano non sai chi sono, non li conosci... come del resto avviene con quelli che ti nascono: quante volte ci vogliono anni per capirsi?». Il caso più duro è stato quello di un ragazzino arrivato a 10 anni e con una grave patologia psichiatrica, «ci ha messi molto alla prova e io credo di averlo sentito figlio una decina di anni dopo: eravamo a Messa e al segno della pace mi ha guardato negli occhi, per uno come lui non è un gesto da poco. Essere padre significa precisamente entrare in relazione, che siano tuoi o no».
Pare un paradosso feroce, ma con tanti figli accolti malati gravi, il loro primogenito Flavio, bello e sano, tre anni fa è morto a causa di un drammatico incidente volando in parapendio. Ha vacillato la sua paternità quel giorno? Ha urlato contro il cielo? «Anzi, si è rafforzata – risponde Giancarlo accanto a Marina – sono i momenti in cui davanti agli altri figli se sei padre devi farti avanti, e allora fai appello a qualcosa che va oltre l’umano, quel qualcosa cui ti sei sempre aggrappato per dire ne vale la pena... Cercare la comunione con l’altro Padre è stato inevitabile».
(1-continua)